Un continuo restauro | Dal diario di Herat di Gholam Najafi
هر کشور رسمش
هر گوسپو پشمش
Ogni paese è la sua tradizione
Come ogni pecora la sua lana
(proverbio della gente di Ghazni)
Oggi chiudo il mio quaderno di racconti dove ho cercato di sedare la paura ma di lasciar vivere le parole delle antiche arti di Herat e di cantare poesie che conosce il cuore di ognuno.
Il mio grande tentativo è stato spiegare che noi siamo sempre partiti ma le nostre mute arti e le montagne sono rimaste al loro posto. Mi rivolgo all’esperienza dell’emigrazione, ai brevi viaggi indimenticabili che faccio fra questi due continenti, ai ritorni dopo i successi, ai sogni che avevo fatto da piccolo, prima di allontanarmi da questa terra, cioè che un giorno avrei scritto una lettera con la mia propria penna.
È inverno, tutti accendono le loro stufe a carbone, i bambini e i genitori vi si riuniscono intorno, i ricchi utilizzano molto spesso una stufa a gas o bruciano la legna insieme al carbone; i poveri invece bruciano la plastica, insomma ogni cosa che si può bruciare, comprese le ossa. Così in casa si può godere di una certa normalità mentre fuori il cielo è spaventato dallo smog, c’è così tanto smog che il sole non riesce più a far arrivare i suoi luminosi raggi e noi respiriamo il fumo che esce da ogni camino.
Povero ambiente, poveri boschi che devono rinascere da questa situazione. Povera neve che deve cadere su questa terra passando per questi fumi velenosi. Per spiegare questo paese, dunque, bisognerebbe sfogliare pagine e pagine per intervenire su tutte le sue emergenze, ma ora non c’è tanto spazio in questo foglio.
Invece c’è tempo per trattare della più antica moschea di Herat, costruita sotto la dinastia dei Ghuride e poi ampliata sempre più sotto ogni dinastia successiva mentre aumentava la popolazione. È situata a pochi passi dai cinque affascinanti minareti di Soltan Bayqara e dalla Cittadella di Herat.
La prima moschea, secondo le fonti, è stata costruita sopra gli antichi templi del fuoco. È un luogo conscio della sua bellezza dove i fedeli giungono a frotte durante ogni preghiera. Osservo i fedeli che arrivano, correndo da ogni porta, verso il cortile dei lavacri; io passo direttamente al grande cortile dove i lavori del giardino, che è stato più volte distrutto, ora sono sospesi ma c’è laggiù un nobile portone nascosto tra i nuovi muri. Chiamano questo gioiello “laboratorio dell’arte”: è l’unico elemento che risale alla prima costruzione della moschea e ora è là come un libro di architettura e di arte aperto ai grandi maestri che continuano a curare l’arte islamica prendendo spunto da antichi esempi.
È strano vedere certe opere salve, sopravvissute alle continue guerre afghane, ma è esemplare compiere un giro di pellegrinaggio nelle singole stanze e nei forni dove vengono stampate, cotte e disegnate le ceramiche, con i vari colori sciolti nelle vasche, per poi portarle sotto mano ad altri artisti che le posano sulle varie facciate.
Gli artisti mi hanno lasciato girare per le singole stanze spiegandomi la loro rovina e la loro rinascita sotto le idee delle varie dinastie. Oh, arte! Mi guardavo intorno come se fossero montagne incantate dove ci sono boschi e, nei profondi boschi, abitano gli uccelli.
La mia curiosità li ha spinti a darmi ulteriori risposte su tutte le procedure, mentre i forni andavano a cuocere i mattoni e le ceramiche e io lasciavo spazio alle mie vecchie lezioni sull’arte islamica, quando a Venezia studiavo, su ombre, le fotografie di altri luoghi. Ora sono qui sulla reale piantina, la somiglianza di questo posto mi porta in Marocco, a Palermo, in Iran, a Cordova…
Uscendo da qui mi rimangono da visitare altri due luoghi rimasti dalla dinastia Ghuride: Shah-e Mashad e l’incantevole minareto Jam, seduto con i suoi versi Kūfī sulla riva del fiume di Hari Rud.
Poi sentì la voce di Abdul Basit, il grande maestro che fa l’annuncio della preghiera in ogni paese musulmano, sciita e sunnita. È mezzogiorno e la folla dei fedeli inizia a mettersi in fila verso la moschea come le formiche primaverili.
La moschea e i fedeli sono al massimo della protezione in caso di attentati, poiché il paese ne ha dovuti affrontare tanti e non si tollerano altre violenze, ma i grandi capi entrano senza troppi controlli. Dunque è qui che sta il problema afghano, è questa la parte che va studiata con attenzione per capire la politica afghana. Con i governi precedenti notavo che le forze dell’ordine, per i capi della politica, valevano come semplici servi, avevano perso il loro valore e il loro potere, erano troppo occidentalizzati.
È troppo presto per far funzionare così il nostro sistema politico, l’educazione dei popoli non è uguale anche se l’umanità ha un unico destino. Ora invece c’è una ripresa delle vecchie abitudini, cioè la voce di un poliziotto fortunatamente è rispettata; si sa che se non lo si ascolta lui spara, colpisce con violenza chi ruba, chi non rispetta la regola.
Molti sperano che rimanga questo tipo di governo su questo tipo di popolo: io nel 2021, dopo le otto di sera, uscivo senza la sicurezza di ritornare a casa mentre ora cammino senza paura di ladri, di affamati fino alla mattina dopo.
Ecco il grande cambiamento! È come se i ladri avessero capito il loro destino: non vogliono essere impiccati e così non vogliono nemmeno provare a entrare nelle case o a fermare la gente per strada.
Allo stesso modo il vecchio governo aveva in mente ampi progetti di riassetti stradali e nuove urbanizzazioni, ma non ha mai preso in mano nulla, lasciando sempre tutto in sospeso poiché doveva affrontare la guerra; ora invece che c’è una tregua, c’è anche una ripresa delle realizzazioni seguite alle parole. La mia grande paura però è che questo, fra qualche anno, inizi a copiare il sistema del vecchio governo: i miei occhi, almeno, temono così.
Ora vorrei tornare a un altro mio grande sogno: il desiderio di aprire una scuola a Herat, progetto che mi era venuto in mente quando avevo finito i miei studi universitari a Venezia e iniziavo a capire il valore dell’istruzione e di una buona educazione.
Nel 2021 ho comperato un pezzo di terra per costruire questa scuola tanto desiderata, ma era proprio in quel momento che il governo del paese fu rovesciato. Ora sono rientrato di nuovo a Herat e vedo che, dove ho comperato la terra, tutta l’area è in discussione, ci si chiede se il primo proprietario, che ha venduto a immigrati venuti da altre regioni, fosse in regola o meno. Non c’è ancora la certezza che la gente potrà vivere qui, nelle proprie case, o che tutte le case non vengano distrutte e l’area data allo Stato. In questo caso non mi resta che aspettare altri anni e vedere se questo governo potrà continuare a governare o se un domani, con un cambio del regime iraniano, avverrà un nuovo rovesciamento pure qui. Perciò non si può finanziare o progettare qualcosa a lungo termine: è dispendioso quando un paese ancora non vede riconosciuto il suo governo dalla comunità internazionale e i paesi confinanti sono in decadimento. Penso alla moneta pakistana e alla moneta iraniana che hanno perso ampiamente valore; in questo modo anche i finanziatori perdono la fiducia.
Io penso sempre che qui ci debba essere una buona istruzione, educazione e rispetto per le varie etnie e penso alla fame che il mondo sta vivendo. Ancora una volta lascio il paese con nuovi pensieri raccolti attentamente e peso le cose che seguono i miei pensieri dalla fine del 2012, quando per la prima volta rientravo in questa terra e iniziavo a capire i confini di questo paese.
Ora ne esco e cammino verso l’Iran, la prima cosa che passa dai miei occhi sono le lacrime, un piangere da neonato che appena uscito dal grembo materno. È sempre un confine per il cuore, è sempre così con i doni della terra madre: tuona il cuore e porta enormi pesi. Non so poi per quanti giorni non potrò parlare e sentirmi con i miei cari sparsi per il mondo.
Anche questa volta forse potrò superare i duri ostacoli del viaggio. Ho guardato con occhio afghano ma questa volta ho pensato in italiano, scrivendo per il popolo afghano.
Così il mio viaggio termina, scrivendo e ricevendo lettere dai miei cari amici e care amiche dell’Italia. In una di queste un’amica mi ha commosso il cuore con questa dolcezza:
“Si percepiscono tutte le onde emotive, spesso contrastanti, che stai vivendo e poi sono resoconti importantissimi che in TV non ti raccontano o ti raccontano poco e per pochi. Quante cose, quante idee mi si affollano nella mente, caro Gholam! Guardo quel Paese, il tuo Paese, attraverso i tuoi occhi e mi sembra di camminare con te. Grazie!
Ti auguro di trovare lì quello che cerchi, dentro e fuori di te. Ricordati sempre di salvaguardare il tuo corpo e la tua anima, sei afghano ma sei anche italiano, e sei un reporter, intelligente e sensibile, e abbiamo estremamente bisogno del tuo lavoro e della tua voce.”
Gholam Najafi
Gholam Najafi è nato in Afghanistan. Ha trascorso l’infanzia lavorando come pastore e contadino. Dopo la morte del padre, all’età di dieci anni, è fuggito dal suo paese d’origine verso il Pakistan, l’Iran, la Turchia, la Grecia e infine l’Europa. Dal 2006 risiede in Italia, a Venezia, con la sua famiglia adottiva. Si è laureato in soli due anni in Lingua, cultura e società dell’Asia e dell’Africa mediterranea e si è specializzato in Lingua, economie e istituzioni dell’Asia e dell’Africa mediterranea all’Università Ca’ Foscari. Attualmente collabora con il progetto “HERA” nel contesto della migrazione, presso l’Università di Padova e si dedica a scrivere racconti e poesie sulla situazione afghana.
Nei suoi libri racconta la sua storia e la sua vita tra due culture e due famiglie. Scopri i libri di Gholam Najafi e sfoglia la sua ultima pubblicazione, Il sorriso di Melograno.
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Foto: Gholam Najafi