Legami recisi: apriamoci alla solidarietà intergenerazionale
L’allarme scatta attorno al 20 febbraio 2020. Non possiamo più entrare nella residenza per anziani dove vivono le persone ammalate o longeve a noi più care. È un momento di destabilizzazione e di smarrimento. Ciò che davamo per scontato non lo è più. È un nuovo dolore per chi amiamo e non possiamo più baciare, accarezzare, nutrire, sostenere… In struttura si respira una dilagante tristezza, un silenzio irreale, un vuoto di presenze. Tutti gli ospiti sono assistiti, ma senza i loro affetti.
Recidere i legami con le persone molto anziane, non autosufficienti, portatori di fragilità psichiche, è grave. La loro mente oscillerà traumatizzata dal senso di abbandono. Dobbiamo mettere in salvo la loro vita fisica, ma siamo preoccupati per la loro vita psichica. Sono “fuori gioco”, chiusi in una scatola ermetica, o quasi. Chiediamo al personale uno sforzo relazionale per non trascurarli mentalmente. Riscontriamo un surplus di amorevolezza, anche se gli operatori sono provati dal carico emotivo e di accudimento. Come diceva un’educatrice: dall’assorbire le emozioni degli ospiti e di tutti i loro familiari. Li guardiamo dietro al monitor per pochi minuti, sempre più smunti e tristi. Assenti. Manca il contatto fisico che è spesso l’unica via di accesso per chi si è perso in un altrove più o meno lontano, per chi ha lasciato le pareti domestiche perché non più sicure per lui, per chi non ha più nulla nella sua esistenza se non vedere chi ama.
Solidarietà intergenerazionale di fronte al cambiamento negli stili di vita
Intanto molti adulti avanti con l’età, ma ancora in gamba, guardano nipotini che sono stati loro affidati perché le scuole sono chiuse. I piccoli, smarriti, chiedono ai grandi cosa stia succedendo. Si guardano attorno incapaci di riorganizzare il loro tempo. Vorrebbero vedere la loro maestra, sentire l’odore della loro aula, riprendere in mano i loro quaderni rimasti chiusi nell’armadio. Esiliati, si chiedono e ci chiedono il perché. Chiamano per telefono i loro compagni, prima esultano un po’ enfaticamente per non dover fare i compiti, poi si abbattono per il vuoto relazionale che il virus ha imposto a tutti.
Niente amici della palestra, niente compagni del catechismo, niente giochi insieme nel parco, niente relazioni né con i loro adulti di riferimento né con i loro coetanei. Recise, poi, le relazioni anche con i nonni. Molti anziani sono a rischio e i bambini potrebbero portare a casa il virus. Salutano allora nonno e nonna, increduli e spaventati. Temono possano morire. Li lasciano senza abbracciarci, senza un bacetto, senza un tocco, evitano anche lo sguardo poiché si sentono vergognosamente colpevoli di lasciarli soli. Scappano veloci.
Qualcuno rimane in una città, qualcuno in un’altra, ognuno chiuso nella propria abitazione. Drammaticamente lontani, gli affetti diventano passaggi a distanza. Il bisogno di esserci turba l’animo. Le domande di tutti sono: “Finirà? Quando si allenterà il contagio? Sopravvivremo noi e i nostri cari?”. Si aspetta di ritrovarsi. La paura di perderli è concreta. Intanto stiamo lontani. Lontani noi che vorremmo essere vicini vicini.
I giovani: tra assenza di paure e dispersione degli affetti
Allo stesso tempo i giovani hanno cercato a lungo, con la loro visione onnipotente capace di far finta di nulla, di negare la realtà, di esorcizzare la morte, di mostrare di non aver alcuna paura. Loro avrebbero voluto pensare di essere in vacanza. Ma il decreto ministeriale li ha confinati fuori dal loro bar, ha sospeso i concerti pubblici, bloccato le attività del tempo libero. Soprattutto li obbliga a lontananze che nulla hanno a che fare con il riunirsi per svolgere i loro riti tribali.
La tribù si disperde. Rientrano tra le pareti domestiche mogi, arrabbiati, irritati. Si lasciano fra lacrime adolescenziali con il ragazzo che abita nel paese accanto. Gli adolescenti allora si accorgono che la scuola è inesorabilmente chiusa. In tutti cresce la voglia di tornarci. Segno di una normalità persa. Di un ritrovarsi di cui abbiamo tutti bisogno. Di uno stare vicini fisicamente che in questo momento, tristemente, manca. I più, avvertendo un crepacuore che è un misto di rabbia e ansia per il futuro, sentono, ora, che lo sguardo dietro al monitor non assomiglia a quello fisico, corporeo, concreto.
Scopriamo allora, tutti assieme, la potenza della tecnologia e il vuoto che lascia la mancata concretezza di un toccarsi, sentirsi, odorarsi, stringersi gli uni accanto agli altri. Il confine corporeo richiede contatto per esistere. La pelle parla grazie alle sollecitazioni emotive venute dal tatto. Vi rinunciamo per non morire e non far morire.
Il legame tra educatori e studenti: un’occasione per imparare dall’esperienza
Insegnanti, educatori ed allenatori consapevoli chiamano al telefono – anche in videochiamata – i loro ragazzi, li confortano, danno spiegazioni, parlano di emozioni difficili da districare. Cercano di non lasciarli soli. Altro non importa. Si fa scuola a distanza per mantenere in qualunque modo il legame. Una lezione, una lettura, un sorriso, una parola, un’attività proposta, servono per pensarsi mentre si è lontani. Si guardi bene: non per non rimanere indietro con il programma, ma per apprendere dalla vita cosa sia l’esistenza umana, per resistere alla recisione del legame fisico e far in modo che il rapporto corpo-mente non sia destabilizzato.
Il corpo sacrificato chiede alla mente di pensarlo. Gli educatori intercettano gli allievi per ragionare su quel che sta accadendo. Per far loro scrivere le emozioni che vivono. Un diario è la cosa migliore per narrarsi. Una serie di domande aiutano gli alunni a riflettere: “Come stai? Come vive la tua famiglia? Dove sono i tuoi nonni? Come impieghi il tempo? Come vedi il virus?”, eccetera, sono la via per imparare dall’esperienza. Le varie comunicazioni, lette e socializzate, tengono insieme gli alunni che si sentono in pericolo o che negano il pericolo. E allora ci si soffermerà su questo sentire la paura che protegge e non negarne l’esistenza. Possono essere ancora sollecitazioni ad informarsi la lettura di una testimonianza, una storia di chi si trova nelle zone più colpite dal virus, un fatto di cronaca, un episodio di solidarietà… È questa la modalità per creare coscienze critiche. È un riconoscere le difficoltà proprie e altrui. È l’opportunità per creare una nuova etica della cittadinanza ed educare al futuro. Il senso della solidarietà intergenerazionale trova così nuove vie per essere rappresentato. Pur lontani, parliamo di fatti a loro vicini, vicinissimi, prossimi. Otterremo la loro attenzione.
Ai giovani è chiesta una inedita attenzione verso gli anziani. Ragazzi, non potete portare in giro il virus. I più deboli soccomberebbero di sicuro se entrasse nei loro fragili polmoni. Gli adulti educatori e formatori sono dunque sollecitati a sviluppare solidarietà con gli alunni che hanno bisogno di sentire che c’è chi pensa a loro, li aiuta a capire il tragico momento che viviamo, chi adopera il suo sapere e la sua cultura per aiutarli a conoscere come vivere all’epoca del Covid19. Di questo si fa lezione. Il senso è “Ti penso e sto con te anche quando non posso farlo fisicamente”.
Parliamo anche della morte, che stiamo cercando di scongiurare con il sacrificio di tutti. La malattia fatale, allora, aleggerà sia come paura condivisa, sia come minaccia che, per essere contenuta, ha bisogno che la complicità tra generazioni venga risaldata.
La solidarietà intergenerazionale come unica soluzione all’allentarsi dei legami
La frattura relazionale tra generazioni avvenuta in questa epoca storica, la capacità di stare vicino alle persone ammalate venuta meno poiché abbiamo esaltato solo la produttività, la scarsa consapevolezza che la morte è irreversibile, sono tutti elementi che rendono difficile, oggi, affrontare questa nuova situazione di isolamento.
La fatica relazionale coinvolge infatti tutti.
Anche chi è adulto sano e forte porta il peso della caduta economica, della paura di non poter più garantire il tenore di vita precedente alla propria famiglia, della responsabilità di non lasciare troppo soli né gli anziani né i bambini, della fatica di dare ad ognuno di loro la giusta attenzione.
Non lasciamo nessuno solo. Inventiamo un esserci che prima non avevamo mai sperimentato per non abbandonare la tenuta relazionale. Parliamo di ciò che proviamo. Parliamo di noi. Di ciò che come comunità stiamo provando a essere.
a cura di Paola Scalari
Paola Scalari è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista ed esercita a Venezia. Docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia e supervisore alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG Istituto di Milano e di Tecniche di conduzione del gruppo operativo nella consociata ARIELE Psicoterapia di Brescia. Da anni è consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe di associazioni, enti ed istituzioni che operano nei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
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