Ripartire dopo il coronavirus: una crisi come nessun’altra
“Una crisi come nessun’altra”: così la Direttrice del Fondo Monetario nazionale[1] definiva la crisi economica che stiamo vivendo a livello globale solo qualche giorno fa, mentre dava le prime stime di crescita del PIL mondiale per quest’anno al -3%, e per la nostra Italia al -9%.
Numeri incredibili, che solo tre mesi fa erano inimmaginabili mentre il mondo correva e le borse brindavano. Per la nostra Italia un po’ meno, ma questa è forse un’altra storia.
Eppure la storia spesso ci presenta eventi che sembrano inspiegabili. “Ma come può essere? È fallita Lehman Brothers?”: era lo stupore del 2008. Eventi improbabili, secondo i modelli predittivi utilizzati, che pure accadono. Esistono i Cigni neri[2], non solo quelli bianchi, come abbiamo compreso negli ultimi anni, forse non fino in fondo.
Un virus mortale da un pipistrello? E chi se li mangia? Si diffonde perché non ci si lava le mani? E non esiste il vaccino? Impossibile.
Guardiamo al futuro, prevediamo i nostri mondi sulla base delle informazioni passate, senza, invece, ridurre oggi al limite i rischi di un mondo che resta e resterà incerto. È difficile fare previsioni, soprattutto per il futuro!
Sarebbe, perciò, tutto assurdo se, ad esempio, non tenessimo in conto che, nel mondo, meno della metà della popolazione ha accesso a servizi igienico-sanitari (bagni, sistemi fognari, latrine, ecc.)[3] in sicurezza, con forti disparità tra zone urbane e zone rurali, anche nella stessa Cina, dove la popolazione totale coperta è intorno al 70%, ma nelle zone rurali si abbassa al 55%. Sarebbe assurdo se non considerassimo che l’aspettativa di vita alla nascita, misurata in anni e che sinteticamente identifica il livello di benessere individuale (salute, ma non solo), sia molto diversa tra i Paesi al mondo. Dagli 83 anni in Italia, ai 78 anni negli Usa, ai 77 anni in Cina, livello pari al nostro negli anni novanta, fino all’Africa subsahariana con un livello mediamente intorno ai 65 anni.
Sarebbe assurdo se non tenessimo conto di quanto si è disinvestito nella sanità negli ultimi anni, anche nella nostra Italia. Perché questa crisi nasce da lì e chissà che lì non ci riporti.
Il costo di una vita
Viviamo non tanto o non solo una “guerra contro il virus”, ma una grande epoca, straordinaria, di cura dal virus. Per questo abbiamo accettato di limitare le nostre libertà per salvare vite umane, soprattutto dei nostri cari più anziani, spesso abbandonati nelle case di riposo, come spesso sono abbandonati i lavoratori che lì vi operano. Nella nostra Italia, oltre un lavoratore su tre nel settore della sanità e dell’assistenza sociale appartiene al sistema cooperativo, cioè al terzo settore, per un totale di circa 320 mila[4] lavoratori. Ora tutto ciò sembra emerso e a tutti più chiaro.
Così il mondo economico e finanziario si interroga su quanto possa costare una vita o che soglia di morti sia accettabile: affermazioni crudeli e ciniche quanto mai.
600 o 400 o 200 morti al giorno giustificano la riapertura delle attività economiche? È l’altra faccia della domanda che ci si pone in queste ore. La risposta scuote le nostre coscienze fino in fondo e un’etica nuova, anche in economia, ne dovrebbe venire fuori: quella che pone la vita umana avanti a tutto e nonostante tutto.
Senza dubbio, l’emergenza sanitaria che sta diventando “nuova convivenza sanitaria”, ci consegna una società e un’economia italiana più fragile: un PIL che cadrà come non mai negli ultimi settant’anni, la disoccupazione che balzerà di almeno due punti, comportando forse un milione di posti di lavoro persi, migliaia di imprese che falliranno, forse qualche milione di persone diventeranno povere, nuovi divari regionali si aggiungeranno a quelli noti, come quello del Mezzogiorno. Molte e inedite sono le contromisure messe in campo in questi mesi, incomparabili rispetto a quanto fatto (anzi, non fatto) nella crisi del 2008. Da quelle europee a quelle italiane, si tratta di numeri impressionanti e impensabili fino a qualche mese fa. Il quanto comincia a delinearsi, ma manca il come investirli: per decidere occorre che tra gli Stati Membri ci sia piena fiducia, soprattutto tra quelli forti e quelli più deboli, anche in questo caso semplificando Nord contro Sud. Questo è il punto.
Fiducia e sostenibilità per ripartire dopo il coronavirus
Fiducia e sostenibilità sono le stesse che sono richiesta agli italiani per questa nuova fase. Fiducia che si rispettino le regole, che nessuno faccia il furbo, che la distanza sociale richiesta e le norme igienico-sanitarie siano rispettate. Fino ad ora, tutto sommato, l’Italia ha dato prova di averne.
La fiducia è il primo motore di ogni società/comunità e dell’economia che ne “regola il disordine in casa”: compro un bene fidandomi di chi me lo vende e lo ha prodotto, lavoro fidandomi che mi paghino a fine mese, prendo il resto alla cassa fidandomi che i soldi non siano falsi.
Probabilmente questa crisi ci consegnerà una società migliore se avremo fiducia tra di noi, nelle istituzioni, nelle nostre comunità, tra imprese e tra imprenditori e lavoratori. Migliore anche perché è emersa come non mai la connessione tra salute dell’uomo e sviluppo economico e sociale[5]. Se manca il primo, si blocca tutto il resto.
E allora non dovremo dimenticarci di ripartire da lì, da quel concetto di sostenibilità che parte dell’assunto che non possiamo compromettere i bisogni delle generazioni future mentre oggi soddisfiamo i nostri bisogni, arrivando a comprendere che gli ingredienti dello sviluppo economico e sociale sono tanti e devono esserci tutti perché questo accada realmente[6].
Se non c’è salute e benessere per tutti, in primis per i lavoratori, se ci sono povertà e disuguaglianze stratosferiche, se c’è analfabetismo, se c’è disparità di genere, se il nostro pianeta è compromesso dal riscaldamento globale, dalla deforestazione e dalla desertificazione, dalla mancanza di acqua potabile e di servizi igienico sanitari, dalla malnutrizione e dall’obesità, se i nostri consumi alimentano sprechi, se l’innovazione non è diffusa e accessibile, se il profitto individuale è l’unica bussola di orientamento… bene, non c’è sviluppo che tenga e che duri nel tempo. Ovunque, a Wuhan come a Manahattan come a Milano.
Perché se c’è un altro insegnamento che questo virus ci consegna è che non esistono muri, steccati e dogane che possano fermarlo. E quando questo accade, l’unica risposta non è alzarli, costruirli, ma cooperare perché non si diffonda e si contrasti al meglio. E il Covid-19 non è l’unico virus ad avere queste caratteristiche.
L’antidoto a questa pandemia non può che essere maggiore cooperazione[7] tra le persone, tra gli Stati, tra gli agenti economici, anche in forma d’impresa. Perché esiste un bene comune da tutelare, più importante di qualsiasi altra cosa. E si chiama umanità.
a cura di Giuseppe Daconto
[1] FMI, World Economic Outlook, 14 Aprile 2020.
[2] Taleb, N. N., Il Cigno nero, Il Saggiatore, 2009.
[3] World Development Indicators, World Bank.
[4] Dati Asia Istat, 2017.
[5] Amartya Sen, Financial Times, 14 Aprile 2020.
[6] Agenda 2030, ONU.
[7] Yuval Noah Harari, Le Monde, 5 Aprile 2020
Giuseppe Daconto, laureato in Economia all’Università Aldo Moro di Bari e alla Federico Caffè di Roma 3, è economista presso Fondosviluppo, il fondo mutualistico di Confcooperative, all’interno del Centro Studi. Si occupa principalmente di economia cooperativa, sviluppo e politiche della coesione.
Con edizioni la meridiana ha pubblicato “Pensieri sostenibili ai piedi di un baobab” (2019), riflessioni su economia e sostenibilità provocate dal suo soggiorno in Senegal.
Immagine: di Pera Detlic da Pixabay.