Rinunciare alla plastica per salvare l’ambiente
Il mese di giugno in Europa è stato il mese più caldo mai registrato nel mondo. Adesso che la rana è nella pentola e l’acqua bolle, possiamo scegliere se, a fine secolo, far salire la temperatura di soli 2 gradi oppure fino a 5 gradi centigradi; se lo scioglimento dei ghiacci innalzerà il livello del mare di solo mezzo metro oppure di 1,2 metri. Greta Thunberg e tutti i ragazzi che hanno aderito al #fridaysforfuture ce lo stanno dicendo da tempo: lo scenario futuro lo decidiamo oggi, ora, in questo momento con le scelte di vita che facciamo – mangiare, muoverci, essere felici, ecc.
La prima delle 5 ‘R’ dei rifiuti: Rinunciare al superfluo
Poiché quasi tutte le plastiche sono prodotte a partire da combustibili fossili e il loro utilizzo contribuisce ad aumentare il riscaldamento globale, ho deciso di diventare cittadina plastic free applicando le 5 R dei rifiuti. La prima è: rinunciare al superfluo, ovvero l’arte di non far entrare i rifiuti in casa. Rinunciare non ha lo scopo di isolarci socialmente ma di farci pensare alle scelte che facciamo ogni giorno, al consumo indiretto al quale partecipiamo e al potere che deteniamo a livello collettivo: se tutti noi rinunciassimo alla plastica monouso, ai volantini e agli omaggi, potremmo invertire la rotta della produzione e far capire al mercato ciò che vogliamo. Perché questo accada c’è bisogno di disciplina. Ho impiegato due ore al supermercato per frenare l’impulso di cogliere le offerte bio, eque, eco-friendly e green disseminate sapientemente per far cadere nella trappola anche i consumatori più consapevoli. Ogni volta che mettevo nel carrello qualcosa mi chiedevo: ne ho veramente bisogno? E la plastica dove andrà a finire?
Rinunciare alla plastica: come e perché
Mi sono documentata e ho così scoperto che i rifiuti di plastica vengono suddivisi in base alle loro dimensioni: macroplastica, microplastica e nanoplastica.
- Le macroplastiche sono prodotte dagli oggetti monouso, per intenderci quelli che generano le isole di plastica. 396 milioni sono le tonnellate di plastica vergine che vengono prodotte su scala globale ogni anno; 310 milioni di tonnellate diventano rifiuti di cui un terzo, cioè 100 milioni di tonnellate circa, vengono dispersi in mare per colpa della scorretta gestione della filiera della plastica (dalla produzione, al consumo, al riciclaggio, allo smaltimento). Secondo il nuovo report del WWF “Responsabilità e rendicontazione”, se il contesto rimarrà immutato, entro il 2030 l’inquinamento da plastica raddoppierà rispetto all’attuale e gli oceani saranno gli habitat più colpiti poiché oggi è più economico scaricare la plastica in natura piuttosto che gestirla efficacemente fino a fine vita. Per frenare il problema della macroplastica dispersa in mare, dal 3 luglio l’Europa ha adottato una direttiva per bandire i 10 prodotti monouso responsabili dei rifiuti in mare più macroscopici.
- Che cosa dobbiamo fare noi cittadini? Rinunciare alla plastica e specialmente al consumo di prodotti monouso: per ogni cosa esiste un’alternativa durevole e/o compostabile; un esempio sono le nuove frontiere raggiunte dalle bioplastiche.
- Le microplastiche, invece, misurano fino a 5 millimetri: si trovano nelle sfere esfolianti di alcuni cosmetici o nelle microsfere di certi dentifrici, oppure derivano dalla degradazione fisica, chimica e biologica di macroplastiche. Le troviamo ovunque ma soprattutto nel mare. Secondo uno studio dell’università di Plymouth, ad ogni lavaggio i vestiti rilasciano fino a 700mila particelle (ovvero il 33% delle emissioni di microplastiche nell’ambiente secondo l’IUCN) che finiscono negli oceani ed entrano nella catena alimentare.
Considerato che, al momento, il 60% di tutti gli indumenti sul pianeta sono in poliestere, cosa possiamo fare noi cittadini per ridurre la presenza di microplastiche nel mare? Ecco alcuni esempi:
- rinunciare ai tessuti sintetici e vestire con fibre naturali;
- firmare la petizione Basta microplastiche nelle nostre acque per garantire l’etichettatura dei capi d’abbigliamento contenenti oltre il 50% di fibre sintetiche. Questo darebbe anche un forte impulso economico alla filiera tessile italiana, notoriamente legata alla produzione di capi in fibre naturali come il cotone, la lana e la seta, creando anche nuovi posti di lavoro;
- attuare degli accorgimenti per ridurre la quantità di microplastica rilasciata dalle lavatrici.
- Le nanoplastiche, infine, misurando da 1 a 100 nanometri (il nanometro corrisponde a un milionesimo di millimetro), entrano nei tessuti dei pesci e sono per noi invisibili. Al momento, la comunità scientifica non possiede ancora informazioni sui rischi per l’uomo dovuti al consumo di alimenti contaminati da nanoplastiche.
Come diceva Ermanno Olmi, “Il futuro ci giudicherà soprattutto per quello che potevamo fare e non abbiamo fatto”, pertanto il mantra da ora in poi dovrà essere: facciamo un passo indietro per andare avanti. Buona sobrietà a tutti.
Ilaria D’Aprile, laureata in Scienze Forestali e Ambientali presso l’Università di Bari e con Master in Educazione Ambientale per la promozione di uno sviluppo sostenibile presso l’Università di Bologna, è esperta in educazione alla sostenibilità e realizza progetti di formazione per insegnanti e studenti curiosi. Con edizioni la meridiana ha pubblicato “Abbecedario verde. Salvare la Terra partendo dalla scuola” (2011) e “Apprendere con gioia. Outdoor Education nei cortili scolastici” (2020).
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