Parlare della morte ai bambini per non lasciarli soli nel dolore
Non è tema semplice parlare della morte e del morire, ancora di più riferendosi all’infanzia: una sorta di rimozione ci fa negare che questo legame possa esserci. E invece c’è.
Dalla malattia alla morte, dalle catastrofi naturali al trauma delle separazioni affettive: non c’è età immune al dolore e alla sofferenza. E quando ci esplode tra le mani, così come in questa pandemia, restiamo spiazzati, incapaci di prenderci cura proprio di quei bambini che dobbiamo guidare, formare, sostenere. È quello che facciamo quando “neghiamo” loro il coinvolgimento e la consapevolezza nella sofferenza familiare per una malattia: temendo di renderli più vulnerabili, per il pregiudizio sull’infanzia da ovattare proteggendola da tutto, in realtà finiamo con l’isolarli, tagliandoli fuori dalla comunicazione.
Allontanare i bambini dal dolore li protegge?
Mentre noi adulti in famiglia ci comunichiamo il dolore sostenendoci reciprocamente nel tempo del lutto, “abbandoniamo” il bambino a leccarsi da solo le sue ferite, non lo sosteniamo nella criticità, non lo guidiamo ad esprimere il suo disagio e il suo malessere, non rispondiamo alle sue domande di ricerca di senso, non fronteggiamo con realismo le sue fantasie miracolistiche o catastrofiche (se prego tanto la mamma guarisce, se faccio il bravo il papà torna).
L’eccessiva protezione del bambino dal confronto col dolore, in realtà, lo abbandona a se stesso, lo lascia solo con la sua fragilità e i suoi sensi di colpa; non lo rafforza né lo rende capace di fronteggiare la sofferenza. Ma l’urgenza di questo terribile presente, che esplode sugli schermi televisivi e nell’esperienza di tutti, ci costringe, proprio mentre siamo sconvolti da dolori travolgenti, a farci carico della sofferenza dei più piccoli.
Allontanarli dal nostro dolore per “proteggerli” significa solo raddoppiare il loro dolore, perché alla sofferenza che provano per chi hanno perso, per esempio il nonno, si aggiunge quella di sentire palpabile la nostra lontananza: questo li costringerà a zittire il loro dolore o, peggio, a farsi carico anche del nostro; si sentiranno esclusi dal nostro mondo affettivo, dunque più soli e più esposti a fantasie catastrofiche che possono portarli a colpevolizzazioni (il nonno mi ha lasciato perché sono stato cattivo).
Parlare della morte ai bambini per insegnare loro il linguaggio della sofferenza
Il bambino ha bisogno di verità, di esprimere la sua sofferenza sulla perdita che si sta vivendo in famiglia, di essere rassicurato sul mantenimento delle relazioni affettive che rimangono: purtroppo gli adulti, travolti dal proprio dolore, si astengono dal disagio di confrontarsi con quello del bambino inviando messaggi di indisponibilità a parlargli della morte della persona cara, lasciandolo di conseguenza solo davanti a drammi che non sa capire e gestire e su cui tace e non chiede aiuto.
Ma per poter comunicare esperienze complesse, i bambini hanno bisogno di usare parole ascoltate là dove vivono la quotidianità: non servono adulti tecnici esperti di linguaggio specialistico, ma genitori attenti ad accompagnare i figli anche nei momenti più difficili e sofferti, che sappiano confrontarsi serenamente anche quando le parole si accompagnano alle lacrime.
a cura di Enza Corrente Sutera
Enza Corrente Sutera, psicologa e giornalista, si occupa di attività formativa per educatori e per operatori sociosanitari con particolare riferimento alle problematiche adolescenziali e della sofferenza. Collabora, in Italia e all’estero, con università, enti e associazioni. Segue volontari che assistono malati di cancro e opera in una comunità per giovani terminali di AIDS. Psicologa scolastica, è autrice di diverse pubblicazioni e collabora con riviste specializzate e divulgative.
Sulla necessità di parlare della morte ai bambini, sfoglia alcune pagine di “Per mano di fronte all’oltre. Come parlare ai bambini della morte” (edizioni la meridiana, 2012).
Immagine: di Paweł Czerwiński su Unsplash.