“L’ho cullato più forte del solito”: il caso del piccolo Diego
È quasi mezzogiorno quando arriva la telefonata dal reparto pediatria dell’ospedale.
Sento il medico in affanno, la voce tremula, l’avvio incerto. Lo conosco da tempo perché collaboriamo nel team di specialisti che da qualche anno ormai si occupa del maltrattamento all’infanzia in città. Una equipe multidisciplinare integrata che definisce e pratica l’agire collaborativo, unendo ambito sociale e sanitario, per la protezione e la cura dei minori vittime di violenza.
Mi parla della consulenza in urgenza prestata in pronto soccorso, verso le 9 di questa mattina, e dell’immediato successivo ricovero in osservazione breve di un bimbo di appena sei mesi. La mamma è arrivata ancora in pigiama, accompagnata da un tale che l’ha incrociata nel mezzo della strada, col piccolino in braccio, e li ha caricati in auto e accompagnati in ospedale. Lo ha consegnato esanime all’infermiere del triage, cianotico, in rigidità muscolare.
Il medico racconta che non aveva febbre, anzi era lievemente ipotermico, ma non rispondeva ad alcuno stimolo: pizzicato su gambe e braccia non mostrava risposte reattive coerenti; inizialmente, a sprazzi, un pianto lamentoso e inconsolabile, con tremori e lievi difficoltà nel respiro, poi letargico.
La storia di un contesto a rischio
Il pediatra confida nella collaborazione dei servizi sociali per inquadrare una situazione che sembra anomala, fuori casistica, anche perché la madre appare alquanto confusa. È arrivata sola; balbetta, esita nelle risposte, a tratti non comprende le domande. Ha già fornito due versioni differenti alla domanda: cosa è successo?
Una prima risposta è stata quella di averlo trovato così in culla, che ancora non si svegliava come era solito fare di prima mattina. Poi, dinanzi all’insistenza dei rianimatori intervenuti, biascicava qualche altra versione: «È caduto dal fasciatoio mentre lo cambiavo… ma non è alto… lo cambio sul divano».
Diego (qui lo chiamiamo così) continua a non rispondere e i medici decidono di trasferirlo al policlinico universitario del capoluogo, in neurochirurgia pediatrica, per approfondimenti diagnostici. Nel contempo ci attiviamo, come da protocollo operativo, per raccogliere informazioni sul contesto familiare ed ambientale, sulla storia personale dei genitori.
Uno sguardo veloce alla visura anagrafica, allo storico di famiglia, è sufficiente a raccontare un contesto a rischio: molti di loro sono già noti al servizio sociale professionale, altri al consultorio familiare. Si tratta di nuclei multiproblematici. La madre invece no, non è conosciuta. Non ha nemmeno vent’anni e proviene da un paese vicino.
Chiamiamo l’ispettrice di Polizia che collabora con la nostra equipe, perché occorre raccogliere altre informazioni specifiche, con un sopralluogo a domicilio per una valutazione di congruenza con i riferiti della mamma. Molte cose non quadrano. Il fasciatoio in casa non c’è. Invece c’è un divano, accanto al letto, ma è basso ed è alquanto difficile trovare una correlazione con una ipotesi di trauma da caduta.
Nel primo colloquio con i due genitori, assieme alla psicologa del consultorio familiare, emergono molti elementi preoccupanti, i cosiddetti fattori di rischio puntualizzati nella letteratura scientifica, sia negli aspetti di personalità sia nella rete familiare. Il lieve deficit cognitivo è evidente dalla difficoltà a spiegare le azioni di cura e accudimento del figlio; i familiari sono tutti distanti, ed hanno fatto visita al piccolo solo poche volte dalla nascita, lasciandola di fatto sola ad occuparsi di lui. L’indagine sociale, a stretto giro, racconta di una quotidianità scarna di interessi e relazioni.
I dati raccolti sono sufficienti per una segnalazione alla Procura della Repubblica minorile, per poter avviare un percorso di tutela più strutturato.
Il tragico culmine: si poteva prevenire?
Non trascorrono molte ore per conoscere l’esito della risonanza magnetica di Diego: lesioni cerebrali ed emorragia. Immediatamente in sala operatoria.
Il colloquio con la donna diventa più stringente: da una parte l’aggancio emotivo, dall’altra la ricostruzione puntuale degli ultimi giorni e della mattina.
Eccola, dopo alcune ore, la maledetta conclusione: Diego ha avuto una notte agitata, la mamma lo ha cullato per gran parte del tempo; si sono addormentati assieme solo alcune ore, in prima mattina. Poi alle 8 si è svegliato ed ha ripreso a piangere, non la smetteva, non bastava il ciuccio, rifiutava il biberon.
«Dottore… ho perso un po’ la pazienza, ho cercato di farlo smettere e l’ho cullato più forte del solito. Ecco l’ho preso e ho fatto così! Le faccio vedere. Non ho capito più niente, perché non mi rispondeva più, e sono uscita fuori casa per chiedere aiuto. Ma ora come sta?».
Silenzio. Ci si guarda in faccia, noi operatori, perché ora è tutto dannatamente chiaro.
Si chiama Shaken Baby Syndrome (sindrome del bambino scosso) ed è una delle forme più gravi di maltrattamento fisico del neonato e del lattante, rappresentando la prima causa di morte per abuso. La maggior parte dei casi si verifica nel primo anno di vita, con una maggior frequenza nei primi sei mesi.
Il bambino tenuto per il tronco viene vigorosamente scosso; in questo caso il capo è soggetto a rapide oscillazioni e, per le sue grandi dimensioni e una muscolatura del collo ancora non sviluppata, il contenuto della cavità del cranio o encefalo va incontro a rapida accelerazione e decelerazione con trauma contusivo contro la scatola cranica, lesione dei nervi e rottura dei vasi sanguigni con emorragie.
C’è una domanda che rimbomba nella testa di noi tutti: come abbiamo potuto non accorgerci delle difficoltà di questa giovane mamma?
Diego non è morto. Ma vivrà con una grave disabilità. In una famiglia adottiva.
Giuseppe De Robertis
Da questa fondamentale autocritica è sorta la spinta a definire un nuovo metodo di lavoro, predisponendo uno strumento in grado di individuare in maniera precoce le condizioni ambientali, familiari e relazionali, in cui si potrebbe verificare il maltrattamento infantile.
È nato così “Di madre in meglio”, uno strumento di screening per l’identificazione di gestanti “neglect” in famiglie a rischio o con problematiche compatibili con ipotesi di futuri maltrattamenti nei confronti di neonati e bambini. Lo strumento sarà oggetto del seminario online “Di madre in meglio”, in partenza il 31 marzo 2025, dedicato ai professionisti dell’ambito socio-sanitario. Scopri i contenuti e come partecipare cliccando qui.
Giuseppe De Robertis è assistente sociale, coordinatore tavolo tecnico multidisciplinare integrato su abuso e maltrattamento all’infanzia e violenza di genere. Da oltre venticinque anni si occupa di tutela delle persone minori di età.