La necessità di un nuovo patto di giustizia sociale: ripartire dalla Costituzione
Sono sotto gli occhi di tutti noi gli effetti che l’emergenza sanitaria sta determinando nel nostro Paese (come nel resto del mondo) in termini sociali ed economici. La crisi economica e produttiva (che comunque è una crisi di sistema, di modello di sviluppo, perché un mondo voracemente onnivoro come quello in cui viviamo ha una prospettiva di vita breve e l’emergenza climatica ambientale ce lo ricorda con cadenza quotidiana) è destinata a diventare strutturale poiché ha di fronte un arco temporale che, sebbene determinato, risulterà piuttosto lungo. Una congiuntura negativa così dilatata nel tempo rischia di divenire organica e non può non implicare la necessità di un nuovo patto di giustizia sociale con l’adozione di misure impattanti e di interventi massicci, che saranno tanto più risolutivi quanto più troveranno la disponibilità di ciascuno di noi a mettersi in gioco.
In poche parole: non c’è né lo spazio né il tempo per gestire questa situazione con rimedi che abbiano come obiettivo il ripristino dello status quo. Che equivale a dire che nessun riformismo ci salverà. Piuttosto bisognerà sviluppare visione, impegno e azione; bisognerà saperci riconoscere membri di un’unica famiglia, abitanti dell’unica e sola casa comune; avere il coraggio di aprire nuove strade; avere la forza di non tornare indietro. E per fare questo sarà importante che ciascuno di noi, individualmente o nelle formazioni sociali, si prenda cura dell’altro, degli altri. Indossare la mascherina vuol dire, innanzitutto, proteggere gli altri, i più vulnerabili, i più esposti al rischio di contagio o alle conseguenze di una infezione. E siccome fare i moralisti non è un bell’esercizio, mi toccherà non dire agli altri quello che devono fare bensì ricordare a me stesso responsabilità e doveri.
La punta dell’iceberg della crisi
Siamo di fronte alla punta dell’iceberg della crisi: abbiamo visto tutti le immagini di commercianti e artigiani in forte difficoltà a riaprire le saracinesche dei propri negozi; piccoli esercenti massacrati dal lockdown (da noi, in Italia, si dice così); partite IVA di piccoli professionisti titubanti nella difficile decisione se riavviare o meno le proprie attività; dipendenti di aziende private rimasti a casa che non sanno se e quando rientreranno al loro posto; lavoratori precari la cui situazione di instabilità si è elevata alla massima potenza. Lo abbiamo visto tutti, quel pizzaiolo sardo, che, spinto dalla disperazione, prende a picconate il proprio locale, il forno della sua pizzeria, anche se poi quello stesso giorno le cronache dei giornali erano saturate dalla polemica sulla ripresa del calendario calcistico. Che dire: un Paese che ha a cuore il calcio e non si preoccupa più di tanto del lavoro e della scuola è davvero un Paese disgraziato; tanto più quando le discoteche si riaprono e le aule – finanche quelle universitarie – rimangono chiuse.
Ebbene: se questo è lo scenario attuale, già domani (settembre) potremmo andare incontro a un disastro vero e proprio causato dalla naturale e perdurante contrazione dei consumi che cagionerà licenziamenti nell’ambito del lavoro dipendente e chiusure di attività in quello autonomo. Le previsioni sul PIL che riempiono le rubriche economiche dei quotidiani non lasciano alcuno spazio a sciocchi esercizi di ottimismo. Nei comparti del turismo, dello spettacolo e della ristorazione la crisi è esplosa in tutta la sua evidenza. Ma anche in altri settori della produzione industriale – automobili, edilizia, tessile – l’insicurezza generale, l’incertezza dipendente dai tempi necessari per scoprire terapie decisive e vaccino, la riduzione delle risorse di cui ciascuno di noi può disporre (ad eccezione del famoso “1%” della popolazione) provocherà un forte calo degli acquisti e, conseguentemente, dei posti di lavoro. L’aumento delle situazioni di fragilità segnalato dalle mense della Caritas e dalle altre organizzazioni istituzionalmente deputate a contrastare le povertà sul territorio è un dato di grande preoccupazione con il quale bisogna fare i conti subito. Cioè oggi, non domani.
Due nuove emergenze a cui porre rimedio
Ora, volendo condurre una rapida analisi, abbiamo davanti a noi due principali categorie di bisogni che necessitano di quelle azioni immediate e audaci.
a) C’è una parte debole del Paese che ha inevitabilmente pagato il prezzo più caro e che, soprattutto, ha davanti a sé prospettive di ripresa del tutto incerte. Ignorare quando e come l’emergenza sanitaria finirà ci proietta in una dimensione di assoluta irresolutezza. L’incertezza non giova a un sistema economico fondato sui consumi, senza alternative. E questo crea apprensione – se non angoscia – in milioni di famiglie la cui sopravvivenza dipende, a volte, da un solo reddito da lavoro. Dipendenti di aziende private (operai e impiegati ai quali la scellerata riforma del jobs act ha tolto già da tempo ogni sicurezza), lavoratori precari, sottopagati e sfruttati, lavoratori sommersi, giovani che lavorano a contrattini (per esempio il lavoro a chiamata, perché nel nostro Paese esiste anche questo), lavoratori migranti, piccoli imprenditori, piccoli e medi studi professionali, sono privi di prospettive: nel 2020 è prevista una perdita di circa 140 miliardi di redditi perché sono 50.000 le imprese destinate alla chiusura nei prossimi mesi. Siccome nessuno può prevedere quanti mesi durerà la crisi (ma è presumibile che si vada ben oltre l’anno) sarà necessario assicurare i diritti fondamentali di sussistenza a queste persone e alle loro famiglie sino al momento in cui non sarà completato il loro reinserimento nel circuito produttivo. È fondamentale, però, che si comprenda che stiamo parlando di sopravvivenza poiché si tratta di dare la possibilità di vivere a famiglie e persone, cioè di salvare vite umane.
b) Poi c’è tutto un settore che ha dimostrato, in questi ultimi tre mesi, di essere vitale nel vero senso della parola per l’intera comunità. A dire il vero, lo ha dimostrato a chi, consapevolmente e colpevolmente, non se ne era accorto negli ultimi quarant’anni: i tagli sconsiderati alla spesa sanitaria e alla ricerca scientifica gridano vendetta. Quello che è capitato – a noi e al resto del mondo occidentale – non è una casualità; piuttosto, si tratta di un disastro cercato e conseguito, di un settore – quello della salute e della ricerca – martoriato dai tagli alla spesa pubblica e cannibalizzato dai privati. Quando, nelle prossime settimane la situazione si acquieterà – e comunque anche se così non fosse – ci sono decine di migliaia di persone che hanno bisogno di visite, indagini, esami, terapie, che non possono essere lasciate indietro in un contesto dove i tempi di attesa erano già eccessivamente dilatati. Questo significa ricorrere a nuovo personale in modo massiccio e significa acquistare nuovi beni e servizi indispensabili: il disastro arrecato alla sanità pubblica negli ultimi dieci anni dovrà essere integralmente riparato.
La necessità di un nuovo patto di giustizia sociale: l’impegno dei dipendenti pubblici
È necessario dunque reperire rapidamente strumenti di soccorso sociale in favore delle masse di persone impoverite, così come ingenti investimenti sulla sanità e sulla ricerca. E non si potrà sempre confidare in una Europa che, seppur insidiata dagli egoismi sovranisti degli stati più ricchi (traditori dell’idea stessa di Europa, indegni della cultura classica e solidale su cui si fonda la storia del nostro continente), sta facendo grandi sforzi: alla fine, in termini di prospettive di sviluppo, ciascuno dovrà vedersela da solo e questo è anche giusto.
Bene: in questo Paese c’è una parte di popolazione, consistente, che vive una situazione di sufficiente (appena) tranquillità, con tutti i limiti che tale termine incontra nel contesto che ora viviamo. Io penso che il pubblico impiego di questo Paese – al quale, tra l’altro va riconosciuto il merito di una mobilitazione generale sul fronte della gestione dell’emergenza, anche al di fuori del comparto sanità – abbia il dovere di leggere con onestà e di interpretare con libertà di spirito l’art. 2 della Costituzione, nella parte in cui esso richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. È proprio questo il punto. Noi dipendenti pubblici (a maggior ragione se dirigenti) abbiamo un grande compito che coincide con l’essenza stessa della nostra missione, che è quella di essere al servizio della comunità: chinarci sulle sofferenze di chi è stato ferito dalla crisi, di chi è stato ridotto ad una condizione di estrema fragilità a causa della difficoltà materiale di fronteggiare la situazione e dell’incertezza per il futuro.
Sia ben chiaro che dico queste cose nella veste di dirigente pubblico e di dirigente sindacale del pubblico impiego; ma le dico anche come membro di una comunità (quella italiana) che ha il suo punto di riferimento essenziale nella Costituzione repubblicana e antifascista. Esattamente. Perché penso che i sindacati, ancor più dei partiti, debbano assumersi questa responsabilità: sono le organizzazioni sindacali quelle che rappresentano tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori, che esprimono i bisogni del mondo del lavoro in modo complessivo, che promuovono la dignità del lavoro in questo Paese. Capisco che si tratti di una posizione impopolare, che rischia di provocare prevedibili reazioni e mal di pancia, ma penso che chi si occupa di sindacato, a prescindere dalla categoria che gli ha conferito il mandato, abbia a cuore innanzitutto gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori del Paese. Di tutte e di tutti. Fra le quali e fra i quali ci sono quelle e quelli che stanno soffrendo di più.
Il pubblico impiego deve partecipare a questo enorme sacrificio in favore di quella parte di Paese che vive in uno stato di sofferenza evidente, in condizioni di estrema fragilità, e vi deve partecipare in modo proporzionale e progressivo.
Ripartire dalla Costituzione per immaginare un nuovo patto di giustizia sociale
Attenzione: sarebbe profondamente errato ritenere che si tratti di elemosina e di buon cuore. Se parliamo dell’art. 2 della Costituzione parliamo di responsabilità, impegni, doveri. Che devono riguardare dunque anche altre categorie produttive, in ragione del loro mandato o delle loro ricchezze. Il passo in avanti che si propone ai sindacati è un sacrificio a cui devono corrispondere delle vere e proprie controprestazioni. Equità vuol dire che tutti partecipano all’impegno comune perché è questo il senso dell’essere comunità.
Non è certo la sede per approfondire questo ulteriore tema, ma è finanche troppo chiaro che dall’equità fiscale alla lotta all’evasione, dagli interventi sugli armamenti ai costi della politica, dalla possibilità di colpire le rendite più alte alle eco tasse, dalla trasparenza dei patrimoni all’aggressione ai paradisi fiscali, sono tanti i settori in cui si potrebbe intervenire per condividere lo sforzo, l’impegno, il sacrificio.
Insomma, siamo di fronte a una grande occasione, a una sfida. Disponiamo di un quadro di principi e valori straordinario per disegnare una nuova idea di società: un corpo normativo dove tutto è codificato e che permette di immaginare soluzioni energiche e nuove. Nella nostra Costituzione è tutto già presente. Lì ci sono gli strumenti per realizzare un intero progetto di vita, di vite, un intero programma politico che abbia come prospettiva una società realmente rinnovata.
Da lì possiamo e dobbiamo ripartire. Soprattutto per chi ha lottato, per chi non ce l’ha fatta, per chi non c’è più, per chi, ora, è in preda alla disperazione. Riempiamo di senso questi enormi e dolorosi sacrifici.
La memoria di chi non c’è più, l’impegno a cambiare: ripartiamo da lì perché nulla sia più come prima. Ripartiamo dalla Costituzione. Repubblicana e antifascista.
Lo si è detto più volte: è il tempo della responsabilità e del coraggio. Per poter dire un giorno, magari neanche lontano, che tutti insieme ce l’abbiamo fatta.
Gli uomini sono angeli con un’ala soltanto: possono volare solo rimanendo abbracciati.
don Tonino Bello
a cura di Maurizio Moscara
Salvatore Maurizio Moscara, dirigente pubblico, è impegnato nel sindacato dal 1997 e attivo sul fronte del contrasto alla corruzione e alle infiltrazioni mafiose negli enti locali con l’organizzazione Officine della Legalità, nonché nel campo del volontariato sociale su temi come l’accoglienza dei migranti, l’educazione alla pace, alla legalità e alla cittadinanza attiva, la costruzione di percorsi di giustizia sociale. È responsabile dell’Organizzazione di volontariato PER.I.P.L.O, ente del terzo settore che si occupa di accoglienza diffusa, inclusione sociale, contrasto alle povertà educative, cura delle persone in difficoltà.
Con edizioni la meridiana ha pubblicato “Marenostro. Naufraghi senza volto” (2020).
Immagine: Iceberg di Frederic Edwin Church (1859).