La cultura dell’accessibilità: ma l’empatia è contagiosa?
In un periodo in cui la parola contagio fa paura, possiamo sperare che ci sia un contagio positivo, che ci possa ricordare in futuro come si stava nei panni degli altri?
Leggo sempre più spesso di persone con disabilità motoria, o di famiglie di persone con gravi disabilità, che si augurano che, finita l’emergenza, tutti (i “normodotati” si intende) si ricorderanno la fatica di stare reclusi in casa, la fatica di rinunciare alle attività che fanno stare bene e in pace con se stessi. Da persona con disabilità motoria e che lavora con persone con disabilità gravi, capisco bene il concetto. Ma il contenuto mi lascia perplessa: serviva una pandemia per capire che uscire di casa è un privilegio?
Ripensare la cultura dell’accessibilità al mondo esterno
La cultura dell’accessibilità al mondo esterno, inteso nelle sue multiformi sfaccettature, dovrebbe entrare sempre nell’agenda del nostro modo di essere e di agire nella comunità e per la comunità. Invece succede che in una situazione di emergenza non si riesce a “gestire” la disabilità: non si sa come fare con le persone con gravi forme di autismo che vengono a perdere delle routine fondamentali al loro benessere; non ci sono abbastanza risorse per aumentare i servizi domiciliari ora che si deve per forza stare a casa; nei centri residenziali mancano presidi sanitari per proteggere gli operatori e gli utenti.
Eppure si confida nella pandemia per ritrovarci tutti, a situazione risolta, con la capacità di comprendere i limiti dell’altro. E, mentre l’emergenza è in corso, riusciamo a capirci a vicenda? Vi riporto un esempio banale: vivo in un piccolo paese alle porte di Bologna, dove non ci sono molti servizi in aiuto alle persone con disabilità; ogni tanto, allora, esco a fare la spesa, cosa che tra l’altro mi fa piacere fare, perché chi ha una disabilità motoria, in questo periodo, perde la possibilità di fare movimento o fisioterapia, per cui la spesa è anche un modo per non perdere la mobilità acquisita.
Al supermercato ci sono sempre lunghe file, ma nessuno mi dà la precedenza. Una sola volta è capitato che un signore mi abbia fatto passare davanti a tutti mettendosi in mezzo tra me e le proteste degli altri cittadini.
Devo aspettarmi che queste persone in fila, una volta terminata l’emergenza, penseranno che montare un ascensore o mettere una rampa in un bar sia segno di civiltà? E per pensare a cose così banali serviva, lo ripeto, una situazione in cui tutti viviamo in maniera limitata? Ma lo sapete che tutti abbiamo dei limiti, ogni giorno nella nostra vita, anche senza pandemie? E lo sapete – so che sembra paradossale – che una delle attività principali in cui si manifestano i nostri limiti è il viaggiare?
I limiti che ci uniscono
Allora proviamo a pensare ai viaggi, soprattutto in questo periodo in cui ci sono impediti. Facciamo un esercizio sul nostro essere viaggiatori e riscopriamo ciò che ci unisce, disabili e non disabili, con le nostre fragilità di essere umani. Pensiamo a un viaggio che abbiamo nel cassetto, quello che da sempre ci sarebbe piaciuto fare e non abbiamo mai fatto. Pensiamo al perché non l’abbiamo mai fatto. Pensiamo ai limiti che abbiamo in viaggio. Per esempio, io ho il limite di dover viaggiare in posti con facilitazioni all’accessibilità per disabili, ma non ho il limite di viaggiare da sola, anzi mi piace viaggiare da sola. Per altri il viaggiare da soli può essere un limite insormontabile. Ognuno di noi, quando prepara un viaggio, ha diverse ansie e paure. E ognuno di noi, soprattutto davanti a viaggi lunghi e impegnativi, ha dei limiti. Nel mio libro, ‘A Capo nord bisogna andare due volte’, ho scritto: “La preparazione a un viaggio è talmente lunga, complessa e in alcuni aspetti anche impossibile, che si rischia di rinunciare”. Ma questo vale per tutti: anche i non disabili possono incontrare degli handicap che scoraggiano. Non tutto il mondo fuori dalle nostre case è pronto alla disabilità, ma neppure tutte le persone senza disabilità sono pronte al mondo fuori dalle proprie case.
Allora, in questo tempo sospeso, pensiamoci davvero ai limiti che ci uniscono nell’essere semplicemente persone. E immaginiamoci in un mondo dove la cultura dell’accessibilità ai luoghi, alla conoscenza, all’informazione, al fare e saper fare rientri semplicemente nella norma di tutti i giorni, non perché l’ha messo in rilievo (forse) una pandemia che lascerà segni dolorosi per molto tempo, ma perché si tratta di un bene comune per tutti.
a cura di Valeria Alpi
Valeria Alpi, giornalista e formatrice, specializzata sulla comunicazione sociale e sui temi della diversità e del disagio. Lavora per il Centro Documentazione Handicap di Bologna occupandosi di cultura inclusiva, in particolare sui temi dell’accessibilità, della sessualità e della violenza di genere. È caporedattrice di BandieraGialla, un giornale online di informazione sociale. Per contatti: valeria@accaparlante.it / valerixblog.wordpress.com
Dei suoi viaggi racconta in “A Capo Nord bisogna andare due volte. Storia di un viaggio accessibile tra limiti e risorse” (edizioni la meridiana, 2019).
Immagine: Abbas Hussain on Unsplash