I giorni del Covid-19: imparare a tollerare e superare il dolore
“Forse tutti i draghi della nostra vita sono principesse, che
attendono solo di vederci una volta belli e coraggiosi. Forse tutto
l’orrore non è in fondo altro che l’inerme, che ci chiede aiuto.”
(Lettere a un giovane poeta, Rainer Maria Rilke)
Siamo arrivati all’appuntamento con il Covid-19 in uno stato di crisi profonda.
Pochi potrebbero negare il disagio della civiltà occidentale, l’inconsistenza di un sentimento comunitario, le vampate d’ira dell’inumano e il cinismo che alimentano gli atteggiamenti di indifferenza nei confronti dell’ingiustizia sociale e del cattivo stato di salute del nostro pianeta.
Gli ultimi due rapporti Censis del 2018 e del 2019 ci dicono che gli italiani ostentano cattiveria, impauriti e diffidenti verso la diversità degli altri, delusi e disincantati per il bluff dell’annunciata ‒ e mai arrivata ‒ ripresa economica. Il Mediterraneo non viene visto più come il luogo di origine delle civiltà, bensì ritorna come limite, linea di confine dall’altro, se non proprio cimitero di tombe.
L’Italia è un Paese che sta male: il consumo di ansiolitici e sedativi è aumentato del 23,1% e gli utilizzatori sono ormai 4,4 milioni. Questo era già prima dei giorni dolorosi e increduli del Covid-19, ai quali arriviamo ora nel nostro ragionare.
Tornare ad abitare noi stessi: tra la necessità di fermarsi e le metafore di guerra
Inizia la primavera e siamo costretti a fermarci, scoprendoci improvvisamente non più onnipotenti ed eterni, ma vulnerabili. Fermarci: ne abbiamo il terrore, non ci sono controindicazioni, ma per farlo abbiamo bisogno di una prescrizione, di un divieto, di una multa salata.
“Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so.”
Viviamo così le nostre vite, stranieri, sconosciuti a noi stessi, come Mersault, il protagonista de Lo straniero di Albert Camus, concentrati soltanto sui nostri piaceri materiali. Non attraversati da nessun moto di ribellione, nessun guizzo di cambiamento, tesi solo ad una quieta accettazione dell’ordinarietà. Viviamo con un solo obiettivo: ottenere l’approvazione sociale.
Viviamo così: esiliati. Non l’esilio della segregazione in casa di questi giorni. Questa potrebbe, anzi, essere un’opportunità per sospendere o ridurre quell’esilio invisibile da noi stessi che incessantemente perpetriamo riempendo di tante cose le nostre giornate. Abbiamo tra le mani una grande occasione. Tornare, pur malconci, ad abitarci e fare silenzio dentro noi stessi, a sconfiggere temporaneamente il controllo, le previsioni, la volontà, il fare, a tollerare di non capire, e sostare nel dolore.
Col passare dei giorni appare evidente che cercare certezze nei virologi e negli esperti è come volersi scaldare con una t-shirt al Polo Nord. La comunicazione messmediatica, da sempre tesa a produrre un immaginario culturale sbilanciato e squilibrato nella rappresentazione complessiva della realtà più sul versante negativo, usa come metafora dominante quella bellica. Siamo in guerra. Bollettini di guerra. Eroi di guerra, i medici, gli infermieri, i volontari negli ospedali.
Daniele Cassandro, nel suo articolo Siamo in guerra! Il Coronavirus e le sue metafore su «Internazionale» di domenica 22 marzo, citando Malattia come metafora (1978) e L’aids e le sue metafore (1989) di Susan Sontag, ci ricorda quanto sia facile cadere nel tranello di presentare e rappresentare un’emergenza sanitaria come una guerra, perché «ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate. I malati diventano le inevitabili perdite civili di un conflitto e vengono disumanizzate appena… perdono il loro diritto di cittadinanza da sani per prendere il loro oneroso passaporto da malati.»
L’importanza della condivisione per imparare a tollerare e superare il dolore
Noi psicoterapeuti abbiamo preso a fare le sedute in remoto, per telefono o via Skype. Ascoltiamo i pazienti mentre cercano di orientarsi sul sottile confine tra preoccupazione e panico, tra minimizzazione e apprensione. Dapprima eravamo impotenti e impauriti anche noi. L’impressione è quella che, per i pazienti, avere uno spazio mentale e un interlocutore abbia permesso di affrontare con una maggiore abilità questa emergenza. Questo si è evidenziato negli argomenti affrontati, negli stati d’animo, nelle emozioni mostrate, nei comportamenti raccontati: alcuni segnali del corpo vengono accolti con ansia e paura, come se da qualche parte si annidasse una minaccia.
La convivenza forzata fa esplodere le tensioni familiari. La violenza domestica aumenta. I primi a farne le spese sono i minori, le donne, i disabili psichici e fisici. Gli anziani e le persone sole. Gli anziani sono una fascia particolarmente fragile: non possono uscire, quando avrebbero bisogno di fare un po’ di moto all’aria aperta. E nemmeno possono andare a messa o al cimitero, stare con i nipotini.
Penso all’impossibilità di assistere i familiari, gli amici, alla proibizione dei funerali e di poter liberare il pianto. Non poter elaborare il lutto – la rabbia per chi ci ha abbandonato, il congedo, la condivisione del dolore – ci lascerà una pesante eredità, insieme al senso di colpa e alla disperazione del non accompagnamento. Dobbiamo sperare di non venirne fuori troppo acciaccati, riuscire a distinguere meglio tra ciò che è importante e ciò che è inutile, essere vigili sulle tendenze collettive a difendersi dal dolore negandolo e minimizzandolo.
Il limite degli adulti: una scoperta per gli adolescenti
Improvvisamente diventa centrale la vita familiare, la quantità di tempo passata con i figli, la condivisione forzata degli spazi.
L’iniziale fervore dei ragazzi di fronte all’imprevista vacanza si è sciolto col trascorrere dei giorni. Di colpo privati dello scambio con i pari, si rinchiudono ancora più puntigliosamente negli schermi dei cellulari: cosa staranno pensando di fronte a questo cambiamento così sconvolgente nelle loro vite?
Ci viene in aiuto la tanto vituperata tecnologia, con la didattica a distanza, con lezioni online che consentono di mantenere una parziale continuità nelle modalità di apprendimento e nel rapporto con insegnanti e compagni. Sono innumerevoli gli strumenti che vengono in soccorso per suscitare la loro curiosità e tenere viva la motivazione. Ma li vedi a volte sorpresi come vittime di un inganno, perché manca quel legame febbrile con i compagni e gli insegnanti, che vivacizza la loro esperienza di apprendimento.
I genitori si ritrovano improvvisamente soli, unici punti di riferimento educativi e affettivi. Quali risposte dare per rendere metabolizzabile tutto questo per la loro mente? Cosa fare affinché i figli attraversino questo evento senza riportare troppe ferite? Come proteggere e filtrare dagli aspetti mortali della pandemia – le ospedalizzazioni, i lutti, l’angoscia di chi in questi giorni anche in famiglia e fra i vicini di casa sta rischiando di perdere il lavoro?
I ragazzi difficilmente fanno domande dirette sulla pandemia, ma di notte si svegliano spesso: qualche incubo irrompe nel loro sonno. Gli adolescenti che nel primo periodo di diffusione dell’epidemia sembravano negare il pericolo e continuare con sfacciata imprudenza la propria vita di sempre, ora sono costretti a casa, a stretto contatto con genitori e nonni, per preservare i quali devono affrontare l’isolamento. Sono per lo più accigliati, scuri, distanti. Alcuni si sentono sopraffatti dall’ansia e dall’impotenza e diventano irascibili e reattivi. Le loro spinte emancipative, spesso conquistate con fatica, ora devono essere sacrificate: la fantasia di fare a meno del genitore dalla propria vita si sovrappone traumaticamente con i rischi del contagio.
È già così difficile scoprire l’adulto nel suo limite, sembra quasi intollerabile vederlo inerme e impotente di fronte ad un’esperienza che nessuno, né figli né genitori, ha mai affrontato. Ce la faremo? Ce la faranno?
Un giorno ci ricorderemo di come in una lontana primavera il virus ha cambiato la nostra vita: il nostro senso del limite, della responsabilità, della collettività e del prenderci cura. Se impariamo la lezione di essere pazienti e vicini al nostro mondo interiore e alle persone che amiamo, potremo insegnare ai nostri figli che i virus, la sofferenza e la morte fanno parte della vita e che la nostra mente è in grado di elaborare e tollerare il dolore.
a cura di Vito Calabrese
Vito Calabrese, nato nel 1956 a Bari, lavora come Psicologo e Psicoterapeuta, attualmente in un Consultorio Familiare della ASL di Bari, dopo circa un trentennio nei servizi psichiatrici pubblici.
Per edizioni la meridiana ha pubblicato “Portare la vita in salvo” (2016).
Immagine: The game of live di Rene Schute (2007)