Il giardino di cotone a Herat | Dal diario di Herat di Gholam Najafi
Molti anni fa numerosi cervi abitavano sulle nostre montagne, ora sono spariti quasi del tutto. Quando veniva ferito, il cervo correva e correva verso una grotta che aveva il particolare profumo di Mumlayi: si sentiva che quell’odore caratterizzava una loro medicina che spuntava naturale sotto alcune rocce. Così anche noi pastori avevamo capito il valore di questa preziosa medicina: non dovevamo scavarla con un ferro ma con un legno o una pietra; se avessimo usato un ferro avremmo rovinato tutto.
Oggi non solo sono scomparsi i cervi a causa delle continue guerre, ma è scomparsa anche quella medicina miracolosa che probabilmente è legata proprio all’odore dei cervi. Come il profumo tra madre e figli, se non ci sono, sparisce l’odore e rimane solamente un luogo deserto dove i miei occhi si aggirano scrutando ogni particolare. Contando sempre i miei giorni, oggi vedo il cuore posarsi sui fiori del cotone e dirmi: “Oh tu, tu ricorda, tu ascolta”.
Era venerdì 25 novembre 2022, andavo verso il ponte di Hashimi, al confine con l’Iran; quello è un luogo di vacanze, soprattutto per il Capodanno. Lì corre un fiume di acqua verso l’Iran e sorge una montagna che per un attimo mi ha fatto pensare di essere in Svizzera, a Interlaken; le montagne della Svizzera sono coperte tutto l’anno di neve e di alberi, qui invece le montagne sono rocciose e polverose perché nude di piante e flagellate dalla neve e dalla pioggia. E dunque ho ripensato anche alle foglie gialle delle strade di Amsterdam dove camminavo qualche settimana fa per arrivare alla casa di Anna Frank, prima di venire in Afghanistan.
Ai piedi della montagna sorge una grandissima fabbrica di cemento attualmente chiusa; questa è una montagna che potrebbe dare cemento a tutto il paese, un paese che tiene nel suo grande grembo enormi miniere, come quelle di carbone che in questa stagione molti di noi stanno utilizzando. Una volta mio padre andava in Pakistan a estrarre il carbone, ora i suoi coetanei mi dicono che il carbone afghano è migliore.
Qui ci sono delle trincee, una a mezza costa e una in cima, entrambe ora abbandonate, abbandonate dalle persone. L’esperienza mi insegna che sono però luoghi di riparo per gli animali selvatici.
Mi guardo intorno, trovo pezzi di armi consumate nell’abbandono della vita umana, guardo le ferite delle pietre e i muri delle trincee colpite come quelle sulle montagne di Alpago, quando camminavo con mio fratello Matteo in cerca delle scatolette di tonno dei soldati durante le due Guerre Mondiali.
Ora il paese è senza grandi battaglie, non sta versando troppo sangue come in altri anni e sembra vedere gli uccelli che volano per i boschi e sentire l’ululare dei lupi. Ma il male non è finito, il suo contagio gira di corpo in corpo fino alle nostre generazioni.
L’altra sera stavo cenando quando, vicino alla mia casa, si è acceso il fuoco di un combattimento fra il gruppo D e il gruppo T. In due mesi ho visto morire cinque persone del gruppo D e due ferite del gruppo T.
Per il resto tutto appare tranquillo, anche se, molto spesso, per la difesa della popolazione, alcuni uomini girano con le maledette armi puntate sulla nostra anima, ma questi fatti li può capire solo chi è nato e vissuto qui.
Qui c’è tanto bisogno di cambiare la mentalità di molti, affinché finalmente capiscano il dono della natura, ma ora noi scendiamo giù, verso il fiume, senza perdere i ricordi. I bambini e le bambine giocano nel fiume, mentre le mamme cucinano sulla riva e i padri raccolgono la legna da bruciare e poi… poi molti vanno a gareggiare con gli aquiloni approfittando dell’ottimo vento che soffia nella valle, altri cantano. Qui viene gente di ogni etnia, la musica mischia tutti e le parole si diffondono nella valle andando con il sussurro fra la sabbia laggiù e volando con il vento verso i boschi, lì in alto.
Al termine della giornata io ho ancora la curiosità di rivedere il fiore di una pianta che finora non avevo mai visto in altri luoghi, e dire che ho sempre guardato con particolare attenzione. Non mi era capitato di vederla nemmeno in Olanda.
Nel tramonto della montagna io e i due miei amici ci siamo avviati verso casa, li ho pregati di fermarsi con me davanti a queste distese di campi di cotone. Ho voglia di fissare questi ricordi ma ho anche tanta paura per l’arrivo del contadino che mi dica: “Perché avete rovinato la mia terra? Io con fatica la coltivo e accarezzo fino alla raccolta e voi venite a rovinare”.
Intorno c’erano alcuni fiocchi di cotone venuti già via con il vento, staccati dal ramo materno. Ero lì a pensare e tentavo di entrare nel campo quando ho sentito le voci dell’anziano contadino con i suoi figli e figlia.
“Potrei fotografare le tue fatiche e la tua fioritura? vedo che sei vestito come questo
stesso cotone, con cappello, camicia e barba bianca.”
“Ma certo, e posso appartenere anch’io al tuo ricordo?”
Che razza di contadino è, che prima fa paura al mio cuore poi si offre di abbracciarmi, tirandomi verso la sua casa per offrirmi il tè?
“E posso avere uno di questi rami come ricordo?”
“Come no, miei cari! Prendetene: tre, quattro e quanti ne volete. Se voi siete così gentili, io vorrei altrettanto essere caro.”
Oh, che meraviglia! Raccolgono con le pinze questi morbidi frutti candidi, ci vuole tanta cura come per le guance dei papaveri che piangono lacrime d’oro, per conservare questa morbidezza. Bisogna affrettarsi durante la raccolta e tenere sotto controllo la propria terra, perché non tutto il cotone matura allo stesso momento, molti bioccoli sono già volati via per la bocca del vento, mentre altri ancora devono uscire dal proprio guscio.
Vedere queste mie foto mi manda indietro nel tempo, vedere questi campi mi ricorda quando pascolavo le mie pecore che lasciavano la loro lana ai denti feroci del bosco, boschi spinosi che incontravo da piccolo. Ora sono le mie biblioteche che portano la mia vecchiaia a confrontarsi con l’occhio di un bambino.
Adesso noi andiamo, abbiamo la notte che ci sorge davanti; è vero, in alcuni anni queste strade sono state impraticabili in certi orari. Non sono notizie solo di oggi, ma le conoscenze che hanno portato i nostri antenati finiti sotto terra per frecce nemiche.
Termina pure questa giornata, sorge la notte, ma io ancora non sono sazio di vedere questa terra. Oh terra, tu che ogni volta porti dolore al mio cuore, tu, tu che sai l’errore a non tornare qui dove la madre mi ha dato educazione e vita. E, certo, sono i ricordi che mi infiammano di più.
Sono luoghi affascinanti quelli dove sono stato, sento nel cuore che sono tornato a casa, come nel famoso racconto del cervo, la cui storia è narrata da tutti gli adulti a tutti i bambini. Ricordo ancora che la mamma la raccontava prima di farmi addormentare: “Algag, Bulgag e Bachecimciulgag (erano i nomi dei piccoli cervi che la mamma chiamava) aprite la porta: sono tornata con le corna fiorite, con gli zoccoli fangosi, con le mammelle piene di latte, con la bocca piena d’erba, gli occhi luminosi, gli orecchi attenti e i denti affilati da tanto brucare; aprite la porta, sono io!”.
Ma quando aprono la porta, Bachecimciulgag e gli altri due sono mangiati dal lupo perché i piccoli sono stati ingannati dalla sua voce cantata come quella della mamma.
Come si esce la mattina di casa e come si ritorna a casa la sera! Come io oggi. Il ruminare delle pecore o delle capre è come il ricantare una poesia al pascolo. Ormai è notte, dimentico gli orrendi dolori del passato, devo seguire gli altri, come la pecora cieca che segue il rumore del suo gregge sulle montagne.
Gholam Najafi
Gholam Najafi è nato in Afghanistan. Ha trascorso l’infanzia lavorando come pastore e contadino. Dopo la morte del padre, all’età di dieci anni, è fuggito dal suo paese d’origine verso il Pakistan, l’Iran, la Turchia, la Grecia e infine l’Europa. Dal 2006 risiede in Italia, a Venezia, con la sua famiglia adottiva. Si è laureato in soli due anni in Lingua, cultura e società dell’Asia e dell’Africa mediterranea e si è specializzato in Lingua, economie e istituzioni dell’Asia e dell’Africa mediterranea all’Università Ca’ Foscari. Attualmente collabora con il progetto “HERA” nel contesto della migrazione, presso l’Università di Padova e si dedica a scrivere racconti e poesie sulla situazione afghana.
Nei suoi libri racconta la sua storia e la sua vita tra due culture e due famiglie. Scopri i libri di Gholam Najafi e sfoglia la sua ultima pubblicazione, Il sorriso di Melograno.
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Foto: Gholam Najafi