Quando è il corpo ad essere attaccato: il disagio adolescenziale in pandemia
Nel mondo attuale il valore di ciascuno passa per il riconoscimento estetico del corpo. Lo si vuole affascinante, atletico, performante. Nell’adolescenza questo bisogno di ammirazione rappresenta un fatto irrinunciabile che mette in moto la necessità di abbellire la pelle con tatuaggi, adornare parti intime con piercing, esibire immagini di sé con video e foto audaci. Viviamo un’epoca nella quale il corpo viene reso ossessivamente pubblico nei social per venire guardato, desiderato, invidiato. Nei giovani questa esibizione comporta l’aspettativa spasmodica di conferme attraverso l’ottenimento di like, numero di visioni e cuoricini. La dipendenza dal successo in Rete diviene spesso patologica e l’adolescente fragile narcisisticamente non ne può fare a meno al punto da investire in maniera affannosa il proprio involucro pelle.
Il corpo diventa il manifesto promozionale di se stessi.
L’adolescente che sta prendendo la misura del suo vivere dentro a questo bizzarro fisico che si trasforma giorno dopo giorno investe molto sul poterlo sentire oggetto di successo nel mondo. È lo sguardo altrui lo fa esistere. Quando il ragazzo non avverte questa conferma “punisce” il sé corporeo come l’acerrimo nemico che lo fa vergognare.
Il corpo diventa l’oggetto dei più pesanti attacchi: viene tagliato, denutrito, isolato, intossicato, annientato. Ucciderlo è solo una liberazione.
Il disagio adolescenziale in pandemia
In questi ultimi due anni di pandemia il corpo è stato rinchiuso, allontanato, vissuto come ricettacolo di virus maligni e come emissario di respiri pericolosi. E il bisogno relazionale negato ha umiliato l’esuberante corpo adolescenziale. Ciò che è avvenuto nella realtà esterna ha duramente colpito la realtà interiore facendo sentire i ragazzi soggetti “inguardabili”. Il fenomeno del ritiro sociale è infatti aumentato assieme a tutti i fenomeni di autolesionismo.
Il corpo è divenuto allora un oggetto persecutorio da isolare, comprimere, nascondere. L’adolescente che ha dovuto interrompere la fisiologica evoluzione identitaria che collega un inedito Sé a una sconosciuta immagine del corpo è rimasto intrappolato in questa crisi identitaria dovuta all’interruzione di relazioni sociali che, nel gruppo dei pari mono genere prima e nella compagnia mista successivamente, fungono da palestra del sentirsi ricercati, prescelti e amabili. Il corpo in questi lunghi mesi di confinamento si è allora ritirato aspettando di poter ritornare a piacersi e a piacere. Questo ha portato delle traumatiche conseguenze poiché per ogni adolescente è divenuto ancor più ansiogeno portare se stesso in pubblico. Se poi gli altri invece di applaudirlo lo hanno mortificato il dramma è stato enorme, fino a far nascere, coltivare e corteggiare il desiderio di farla finita. Se la conferma narcisistica non è avvenuta o, ancor peggio, è arrivata una disconferma del proprio valore sociale, la strada per far pagare il prezzo di questa infamia al proprio corpo è stata una via obbligatoria.
Il suicidio tra gli adolescenti: la seconda causa di morte tra i 14 e i 18 anni
Uccidersi è divenuto non tanto un eliminare se stessi quanto un annientare ciò che non ha reso ammirabili. Per questo l’estremo gesto di autodistruzione tra i compagni può divenire contagioso proporzionalmente al comune bisogno di sentirsi importanti, popolari, riconosciuti.
E così il suicidio tra gli adolescenti, che è la seconda causa di morte dei ragazzi e delle ragazze dai 14 ai 18 anni, durante questi mesi di confinamento è divenuto ancor più frequente di quanto già fosse. Un modo per uccidere il corpo brutto e cattivo che fa vergognare e poter ritornare ad essere il bambino bello e felice dell’infanzia adorato dagli occhi di mamma.
Nell’impellente, irresistibile e travolgente desiderio di morire il ragazzo pertanto immagina, a volte a lungo a volte in un breve flash, il suo funerale. Vede tutti che lo piangono. Osserva familiari che si pentono di non averlo capito abbastanza. Scruta insegnanti imbarazzati a causa delle loro azioni ingiuste e sadiche. Fissa compagni disperati che lo rivogliono come amico. È questa scissione, dove il giovanetto guarda se stesso divenuto cadavere da un angolo della sala dove si celebra la sua commemorazione, che lo induce ad eliminarsi. Si suicida perciò non tanto per il desiderio di sparire quanto per il desiderio di essere al centro di tutte le attenzioni e ripagato di tutte le ingiustizie subite, vere o presunte. Gli elementi che fanno da miccia e da combustibile a questa voglia di morire sono molteplici e di varia natura: familiare, ambientale, comunitaria, soggettiva, sociale. È un mix che non può essere scomposto. Ogni elemento è correlato agli altri in un impasto multifattoriale. Tutti insieme questi nodi emotivi si scatenano in un determinato momento. Un attimo imprevedibile il più delle volte, inspiegabile razionalmente, inimmaginabile sempre.
Nell’adolescente l’impulso irrefrenabile che sfocia nell’atto di uccidersi si innesta sul suo specifico bisogno di trovare velocemente la soluzione all’umiliazione che prova. Il ragazzo vuole liberarsi immediatamente di quel corpo traditore per poter esser di nuovo un soggetto ammirato sia nella vita familiare che in quella sociale. Non ha alcuna possibilità di riflettere, pensare, ragionare. Deve agire. In un attimo gli pare chiaro, limpido, incontrovertibile come rifarsi una reputazione.
Non sempre le situazioni di disagio che gli portano sofferenza sono proprio del tutto reali, ma sono affetti veri nella mente del ragazzo. E allora la rabbia disperata può prendere spunto da un evento anche di piccole proporzioni. Si avvera quindi, come per ogni adolescente narcisisticamente fragile e fisiologicamente onnipotente, che il fatto increscioso va amplificandosi a dismisura nella sua mente. Diventa un tormento da cui fuggire. Un dolore da eliminare. Una situazione da risolvere. Un’ossessione da calmare. La morte pare la via più giusta.
La scuola spesso fa da specchio a questo narcisismo mortifero che va alimentandosi all’infinito se si è bravi, perché bisogna essere sempre più bravi, o va sgretolandosi sotto l’urto dei voti e giudizi che fanno vergognare. È in questa scissione e nell’impulsività dell’età incerta che l’agire suicidario rappresenta l’atto di protesta e di richiesta di un aiuto che la mente scissa non sa che mai gli verrà dato poiché con la morte finisce davvero la vita e non c’è un’altra chance che possa riparare alle mancanze dell’esistenza precedente.
Ma questo i ragazzi disperati, arrabbiati, impauriti di non valere abbastanza non lo sanno. Il pensiero si attesta in un’unica frase: “Con la morte avrò la mia rivincita, la mia riabilitazione, il mio riconoscimento”. O perlomeno questa convinzione la riscontriamo nei giovani che sono riusciti in qualche modo a salvarsi dopo tentati suicidi e quindi hanno potuto raccontarci cosa avessero vissuto mentre si tagliavano, si defenestravano, si mettevano una corda al collo, si imbottivano di pasticche. I giovani che hanno tentato di farsi fuori parlano dell’euforia che li pervade mentre “capivano” come risolvere in maniera definitiva la loro rabbia disperata di non essere ammirabili per i genitori, per gli insegnati, per i compagni, per gli “amici” dei social. Odiano il loro corpo grasso o magro, adescato o deriso, voluto o rifiutato che li contiene senza proteggerli.
Educare le nuove generazioni a perdere
Possiamo allora cercare di educare le nuove generazioni a sopportare le frustrazioni senza che esse implichino la perdita della voglia di vivere?
Il primo passo verso la prevenzione degli atti suicidari nei giovani va dunque nella direzione di aiutare i figli e gli allievi a non dover essere sempre vincenti. Bandiamo pertanto definitivamente la frase: “Potresti fare di più!”.
Un atto che ritengo possa essere rivoluzionario per gli adulti, poiché quasi tutti credono che essere bravi educatori significhi avere figli e allievi ineccepibili.
Insegnare a perdere è invece importante per preparare l’adolescente ad accettare l’impossibilità di essere tutto, compreso il sentirsi maschio e femmina insieme. La scelta di identità di genere è spesso oggi sempre più dolorosa e travagliata. Comporta una perdita, una rinuncia, un lutto. Eppure è una scelta necessaria per raggiungere una identità sessuale che apra alla possibilità di amare eroticamente il corpo dell’altro e farsi amare fisicamente senza la paura di sentirsi svalutati perché “a metà”. Incompleti.
Il corpo erotico allora si ricongiunge alla mente ed impara ad amare anche le difettosità, le mancanze, le assenze.
Essere limitati è bello mentre essere perfetti è non solo impossibile, ma anche, se fosse raggiungibile, noioso, poco creativo, terribilmente stereotipato. Diciamoglielo ai figli, agli allievi e ricordiamolo spesso a tutti gli adolescenti. Ma rammentiamolo anche a noi stessi, che come educatori vogliamo ragazzi che ci rendano ammirabili.
a cura di Paola Scalari
Per approfondire:
iGen: chi sono e di cosa hanno bisogno i nuovi bambini e ragazzi di oggi? di Gabriella Falcicchio
Paola Scalari è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista ed esercita a Venezia. Docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia e supervisore alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG Istituto di Milano e di Tecniche di conduzione del gruppo operativo nella consociata ARIELE Psicoterapia di Brescia. Da anni è consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe di associazioni, enti ed istituzioni che operano nei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
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Immagine di Lars H Knudsen da Pexels.