Il cimitero si espande | Parte II | Dal diario di Herat di Gholam Najafi
Oggi, 23 febbraio 2022, ho avuto una notizia triste, come tutte le notizie afghane da oltre quarant’anni. La notizia mi annunciava la morte della donna più anziana del villaggio, forse la più anziana di tutti i tempi nostri; secondo alcuni avrebbe avuto 110 anni, ma, non avendo una identità segnata su una carta, nascono dei dubbi, in più o in meno.
Aveva visto con i suoi occhi کونی کاسه (koni kase), i nipoti dei nipoti, letteralmente “il fondo del piatto”. L’ho incontrata nell’estate del 2021, ho scattato due fotografie di lei, non mi ha riconosciuto, io sì, con tanta tenerezza. Non vedeva molto bene, io piangevo e lei non vedeva, ma camminava, andava con i suoi piedi a casa delle figlie e dei figli, conosceva ogni pietra della strada, sapeva dove mettere e non mettere i piedi, aveva ancora quella memoria, viveva a casa del suo penultimo figlio. Tutti la conoscevano come: ایکی اوستا (ayke ustā), che significa la madre dell’arrotino. Aveva 4 figli, che conoscevano tutti il mestiere del padre, tramandato da molte generazioni di arrotini, e aveva tre figlie.
Diversi dei miei racconti girano intorno alla figura di questa donna e delle sue figlie. Una nonna così anziana in Afghanistan rappresenta quasi un capo del villaggio, popolato solamente dai suoi antenati e dai suoi discendenti. I suoi figli erano uomini molto generosi, da tutti erano conosciuti e rispettati, perfino nei villaggi lontani, poiché tutte le lame venivano forgiate nella fucina che avevano proprio sotto casa: dagli attrezzi della cucina fino agli attrezzi dei contadini, tutti erano costruiti e riparati dai suoi figli.
Dalla mia nascita sapevo che viveva già vedova, il marito era morto per qualche malattia, ma le donne afghane, dopo la morte del marito, vivono per i figli e per i nipoti… ecco perché la fertilità è così apprezzata. Le mancava un dito, il mignolo, molte le avevano messo un secondo nome, cioè دوم مونٹی (dum munti) che significa ‘senza coda’ o ‘coda tagliata’, un nomignolo che le veniva detto dietro le spalle oppure nel momento di un litigio o di minaccia.
Tutti i suoi figli e figlie erano analfabeti e sono rimasti tali, ma avevano imparato il pashtun avendo lavorato nella bellissima città di Oruzgan o Orozgo, in mezzo a una etnia che non era la loro. Il loro mestiere e la comprensione della lingua locale, permettevano loro di convivere in gioia, portavano spesso da lì albicocche fresche e secche, mandorle, mele, uva, angurie, tabacco, noci… cose che i nostri villaggi non avevano ancora mai visto. I loro viaggi portavano cambiamenti, nuove conoscenze; viaggiavano con l’asino quando lasciavano la casa, si fermavano in qualche moschea perché il viaggio durava molto per raggiungere una città molto fertile dove la natura dona l’acqua e l’acqua costruisce luoghi comuni e garantisce cibo per tutti.
Avevano due case attaccate, il figlio grande aveva due mogli, perché la prima non aveva mai potuto dare figli mentre la seconda tanti. Lei viveva con gli altri tre. Avevano due laboratori che venivano chiamati دوکو (duko), letteralmente ‘due montagne’. Un mio racconto è dedicato proprio alla figlia piccola che scappò di casa innamorandosi di uno studente, molto bello, elegante; lei non era da meno, aveva le guance ambrate come le prugne. Si erano innamorati, visti e rivisti al bordo del ruscello che fu scavato proprio là, sotto casa, profondo sotto la montagna, e che molti anni dopo causò una lite mai sanata. Tutte le persone che avevano creato quella rissa oggi sono morte e quella sorgente pure, sta per morire: se avessero saputo in tempo come vanno le cose, non avrebbero mai creato problemi.
Subito dopo questa sorgente c’era una diga con degli alberi, più in giù erano alberi da frutta, dato che il sole arrivava presto e andava via tardi, perché la loro terra si trovava proprio sul petto della collina, ma richiedeva tanta acqua perché era un terreno molto sassoso. Sotto gli alberi c’era un pezzo di terra coltivata ایرشقه (ershiqa), con una specie di trifoglio, che in primavera, appena spuntava dalla radice, io e molti altri ragazzi andavamo a raccogliere a ciuffi che portavamo a casa oppure mangiavamo là. Ci nascondevamo in mezzo alle foglie, con un pezzo di sale in mano a forma di roccia, e leccavamo con la lingua per gustare l’erba diventata salata.
Succedeva a volte che non potevamo sfuggire agli occhi vigili di questa povera donna, mancata poco fa, lei sotto terra e io qui, così lontano, che scrivo la sua storia legata alla mia infanzia. Se ci vedeva, ci correva dietro con le pietre in mano o un bastone, fino a casa; una volta arrivata a casa denunciava ai nostri genitori il nostro comportamento maleducato, visto che rubavamo i trifogli dalla sua terra, coltivata con tanta fatica. Noi bambini sapevamo che i genitori ci avrebbero picchiato altrettanto, per cui andavamo errando in altri sentieri, lontano da casa nostra, anche se il ritorno a casa sarebbe sempre rimasto una angoscia.
Era una donna che viveva gioiosamente con tutte le persone, una volta però creò pasticci, quando la sua ultima figliola fuggì di casa. Si arrabbiò con lei, con il genero e con tutto il clan del genero. Perché questa rabbia? Perché aveva fatto crescere con amore la figlia fino a quella età, sedici anni, e la ragazza era fuggita quando la mamma voleva darla in sposa a una persona scelta da lei. Già il giorno dopo erano nati fra queste due famiglie dei forti contrasti, quasi una guerriglia, che presto si trasformò in un conflitto politico che coinvolse tutto il villaggio. Si trattava di stabilire il costo del matrimonio, e allora si unirono alla discussione i religiosi e gli anziani, in una moschea, per pacificare queste due famiglie; la mamma non si fece vedere e neanche la figlia, così prima o poi le rabbie svanirono e tutto fu risolto.
Mi racconta una ragazza che, quando l’anziana era venuta a Kabul, non vedeva l’ora di ritornare nella sua vecchia casa, diceva queste parole: «Come fate a vivere qui in mezzo a musulmani e non?»
A lei, già vivere in mezzo alle diverse etnie, tra persone della sua generazione e della nuova generazione, sembrava un’assurdità, rappresentava un mondo sconosciuto, caotico, preferiva vivere dove era nata e cresciuta, dove le persone sapevano tutte di tutti. Come in alcune parti della Sardegna o nei villaggi delle Marche, dove le case spuntano come in un quadro e gli alberi fanno da decorazione, e per andare da un villaggio all’altro sei abbracciato dai cespugli o dalle rocce. Quindi uno che nasce in queste piccole realtà fa fatica a respirare l’aria nelle grandi città, come a Kabul, dove passa tutto, e tutti passano per raggiungere altri luoghi.
Torno alla mia visita di quei pochi minuti. Per tutto il tempo che sono rimasto là mi si sono accumulati in cuore i racconti dettati da quelle persone analfabete ma piene di tanta profondità. Lei, l’anziana, pensava tantissimo alla morte, mi diceva parole, parole dolci: «Sto aspettando l’arcangelo Gabriele, so che arriverà, ma mi fa attendere troppo. Io qui ormai sono inutile, peso, peso sui figli, peso sui miei familiari, sono un disturbo per tutti. Non posso fare altro che attendere quell’angelo, che spero che Dio mi mandi presto. Non vedo bene, non sento tutto, oltre alla perdita della vista e dell’udito ho perso molti conoscenti e amici, compagni di una vita, o sono morti o vivono lontani. Per farmi una doccia, per cambiarmi i vestiti e lavarli devo chiedere a mia nuora e per lei è un enorme disturbo; la nuora è nuora, non può sostituire una figlia né io potrò mai essere sua madre.»
Ecco che finalmente possiamo spiegare un po’ la figura della donna e dell’uomo nella società afghana di quei luoghi, quando ancora non si era contagiata con realtà esterne, figura ormai quasi del tutto scomparsa altrove o trasformata in altri stili di vita.
Quando iniziai a scrivere Il tappeto afghano (edizioni la meridiana, 2019) questi racconti dormivano nel mio petto silenziosamente. Dopo aver scritto il libro, il mio cuore mi disse che quelle parole, quei personaggi, quei paesaggi abitavano in me da sempre, avevano da tempo fatto il nido nel mio cuore e da quei nidi avevano iniziato a volare immagini che credevo dimenticate.
Ora la sua figlia più piccola è diventata mamma e nonna, analfabeta anche lei, la chiamano Nuri Bibi (la luce dei Bibi), suo marito è uno studioso di teologia. Ricordo che quando lui partiva per l’università, detta Hauzaye elmyah (il luogo della scienza), lei gli piegava e stirava dolcemente il suo turbante bianco confrontandolo con خیلای (khilayi), un tipo di fungo che nasceva sulle montagne quando il cielo preannunciava la pioggia con i tuoni. Quello stesso fungo, noi correvamo a raccoglierlo appena smetteva di piovere e all’uscita dell’arcobaleno, che avvertiva il nostro cuore che quel giorno non sarebbe più piovuto e noi pastori potevamo far pascolare le pecore con la certezza del bel tempo e potevamo poi tornare a casa con quei funghi appena nati.
Se lei aveva un nome così singolare anche lui non scherzava: si chiamava Ne’matullah, che significa la grazia di Dio. Avevano tre figlie e tre figli. Oggi lei piange la morte della madre, sta passando un momento di lutto, dice che la mamma è una montagna che non si sposta, irrinunciabile, non perde un filo del suo valore. La madre non c’è più, ma ha lasciato montagne di ricordi. La sua prima figlia è nata dove è morta la nonna, piange pure lei la morte della anziana donna; ha una sensibilità originale, fragile, scoppia a piangere da un momento all’altro. Gli altri figli, nati nella città fra molte culture diverse, non hanno quella sensibilità, vivono in un’altra maniera. La nonna, durante l’ultima cena, aveva mangiato la carne seccata in autunno e bevuto due o tre bicchieri d’acqua; disse queste parole al figlio che era là accanto, perché poi le passasse e trasmettesse agli altri, soprattutto alle figlie lontane: «Mio caro figlio, la cosa che desidero, in questi momenti, è non perdere la poca forza che mi rimane e darvi peso; almeno fare due passi al giorno mi vale infinite fortune; lavarmi indipendentemente, pregare alzandomi su e giù sulle mie ginocchia; poter digerire i tre pasti al giorno. Lo dico a te ma l’ho detto alle mie figlie una volta, con una voce ancora giovane.»
Poi volle andare fuori a lavarsi le mani, ritornò ancora con i propri piedi e si sedette all’ingresso, accompagnata dalla cara nuora; a lei disse: «Sono stanca, sai? Non ce la farò più a reggermi sui miei piedi!»
Poi si rialzò e cadde vicino alla porta della sua stanza senza più poter dire nulla; la sera prima il povero figlio aveva chiamato un mullah per leggerle a voce altissima Hamala, delle poesie che aveva tradotto in lingua locale. Questa sera le legge il sermone per la sua veglia funebre.
Oh! Ha visto tanto con i suoi occhi su questa terra! Ora che aveva superato, a questa età, anche la guerra e sembrava che iniziasse una tregua, lei abbandona per sempre; non vedrà una nuova guerra, mentre nel paese nascono nuovi combattimenti lei non vedrà altro. Finalmente, finalmente, mi viene da ripetere!
Ai suoi figli era rimasta un po’ di terra da coltivare sulle montagne; andando e tornando a casa, uno di loro è stato catturato da un ladro: le mani legate dietro la schiena, i piedi chiusi come fosse una statua di Buddha e la bocca messa a tacere con atrocità. Così non poté tornare al villaggio ma fu mangiato dai lupi e dagli sciacalli proprio nel mese di aprile del 2022.
Una terra diventata debole, e della sua debolezza tutti gli animali si approfittano. Molti afghani intanto hanno il desiderio di abbandonare il paese e rifugiarsi fra le braccia di altri paesi, in altri continenti. Così muoiono i sentimenti dei cittadini, essi non possono più amare la loro terra, non hanno tempo per amare.
Il 17 febbraio 2022, ho fatto una chiacchierata con la madre di Ali, anche qui parenti lontani dall’anziana donna. Lei ormai vive a Herat, ha tre figli, un figlio l’ha perso con il parto Bar dar (essere incinta), che letteralmente vuol dire avere il peso nel grembo: non ci sono medici a sufficienza, non ci sono soldi a sufficienza. Mi ha raccontato che per nove anni ha fatto la pastorella, fino a quando si è sposata, andava sulle montagne con la sorella maggiore che, quando il gregge si sparpagliava, seguiva le pecore o capre lontane mentre lei quelle vicine perché non sapeva ancora correre veloce. A volte non ascoltava la sorella che le diceva: «Quando questa sera torniamo a casa dirò alla mamma che non mi hai aiutato…»
Una volta non lo aveva fatto, un’altra volta pure, e la piccola ha iniziato a non ascoltare proprio la sorella grande. Una volta, però, tornata a casa, il fratello le suggerì di scappare perché, oltre a non ascoltare la sorella maggiore, erano arrivate in ritardo e mancava una capretta, per cui quella sera sarebbe stata picchiata. Prima ha iniziato a correre intorno alla casa per sfuggire alla madre, ma alla fine fu presa e il bastone fu fatto a pezzi sulla sua pelle. Il fratello, che prima le aveva suggerito di fuggire, fu picchiato pure lui, ma la capretta che si pensava di aver perso era rimasta a casa. L’errore che avevano commesso lei e la sorella era non aver contato bene la mattina, prima di partire per le montagne, e avevano così pagato caro il prezzo del proprio errore.
Era difficile fare il pastore, era difficile educare ogni primavera gli animali neonati con nuovi nomi o far ricordare il vecchio nome. In primavera il fiume ingigantiva d’acqua, onde come pezzi di roccia si arrotolavano e passavano sotto il ponte. Attraversare il fiume faceva girare la testa, non solo a noi ragazzi ma anche agli animali incoraggiati. Il ponte era fatto con due travi di legno, che a volte attraversavamo seduti con gli occhi chiusi, ma il rumore lo sentivamo comunque forte, forte… raccontava lei.
Avevo imparato qui i nomi degli uccelli, dei fiori, dico qui, qui in Afghanistan, perché quando scrivo mi trovo in realtà sull’isola di Murano, ma viaggio con il pensiero là, tocco con la mano roccia dopo roccia, come se fossero i quadri di un’antica galleria d’arte dove io mi aggiro. E i pensieri dove vanno? Sono così veloci che corrono come le nuvole spinte dal vento. È una infanzia, la mia, che va ricucita filo per filo, alcuni fili sono consumati nel mio pensiero.
Ora tra gli anziani che ricordo è rimasto solo un uomo cieco, guidato per venti anni dal suo asino; ovunque si ferma la gente del villaggio li aiuta, lui e il suo asino, raccoglie grano, mais, piselli, lenticchie… porta tutto a casa per sfamare i suoi sei figli piccolissimi. Ecco cos’è rimasto, un cieco che segue l’asino, ma l’asino ha paura dei lupi e corre via quando vede da lontano i suoi nemici.
Ho ritrovato per caso un mio vecchio scritto, che mi regala la conclusione di questo mio raccontare. Ricordo che sei anni fa avevo un forte desiderio di ritornare sui vecchi sentieri che avevo percorso bambino. Il sogno si è realizzato nel 2021: andai, errai, fotografai i luoghi che mi mancavano di più, mi sembrava di aver lasciato un’infanzia speciale fra le pieghe di quelle pietre.
Gholam Najafi
Gholam Najafi è nato in Afghanistan. Ha trascorso l’infanzia lavorando come pastore e contadino. Dopo la morte del padre, all’età di dieci anni, è fuggito dal suo paese d’origine verso il Pakistan, l’Iran, la Turchia, la Grecia e infine l’Europa. Dal 2006 risiede in Italia, a Venezia, con la sua famiglia adottiva. Si è laureato in soli due anni in Lingua, cultura e società dell’Asia e dell’Africa mediterranea e si è specializzato in Lingua, economie e istituzioni dell’Asia e dell’Africa mediterranea all’Università Ca’ Foscari. Attualmente collabora con il progetto “HERA” nel contesto della migrazione, presso l’Università di Padova e si dedica a scrivere racconti e poesie sulla situazione afghana.
Nei suoi libri racconta la sua storia e la sua vita tra due culture e due famiglie. Scopri i libri di Gholam Najafi e sfoglia la sua ultima pubblicazione, Il sorriso di Melograno.
Leggi tutti i frammenti del Diario di Herat.
Foto: Gholam Najafi