Il cimitero si espande | Parte I | Dal diario di Herat di Gholam Najafi
Qabristo قبرستو
Kotali khāgā کوتلی خاگاه
Il luogo delle tombe
La collina del cimitero
Le mie cronache arrivano da dietro le montagne, dove non ci sono fonti se non quelle nate direttamente dalla voce di ogni testimone. Giungono al mio orecchio, io ascolto, metto pietre e fiori come fonti dentro i miei scritti. Solamente le fotografie, che vorrei riportare qui, sono il cuore delle cronache dei paesaggi afghani e la voce di qualche anziano che furono vivi; ora tutti quegli anziani fotografati da me sono mancati.
Oggi, lascio piovere l’inizio di questo scritto con le parole di un vecchio contadino. Era un contadino che ormai aveva poca barba e pochi baffi da quanto aveva lavorato, le sue mani si erano incurvate da quanto aveva zappato la terra. Quanti figli aveva lasciato in questa terra prima di morire? Aveva visto l’uccisione del figlio maggiore durante l’arrivo dei talebani (arbakya) e la scomparsa del suo ultimo figlio, il piccolo. Aveva cinque figlie e sei figli, più lui e la sua amata moglie.
Parlava spesso con la moglie di come sistemare i figli e collocare fra le braccia di stranieri le figlie; una volta sposate, le figlie non si sarebbero più incontrate, sarebbero andate lontano, non solo dal villaggio ma dal continente.
Era un pomeriggio tardi, l’ombra del tramonto si era già inclinata per scendere giù dai monti e dalle colline, le immagini di quelle pietre passavano sulle case attraverso quest’ombra via via che la sera diventava buia; i pastori tornavano a casa con i loro greggi, le montagne durante la notte si svuotavano dalla presenza di uomini e animali domestici e si riempivano di animali selvatici. Lui, l’anziano, questo tramonto estivo sotto il caldo lo attendeva in un angolo davanti a casa sua, riparato dal vento; era il luogo dove molto spesso curava la sua barba e i suoi baffi con una piccola forbice pieghevole specchiandosi nel contenitore del tabacco, che metteva sotto il labbro senza filtri.
L’ultimo nostro incontro era stato sotto gli alberi, dove bagnava la sua terra e il grano, era l’ultima acqua che dava prima della raccolta. Faceva arrivare l’acqua a ogni radice per avere una maturazione giusta. La sua terra era sotto la collina del cimitero.
Lasciò la pala con cui lavorava e mi mostrò con una voce che suonava di lacrime: “Vedi, vedi questo cimitero in espansione? Quanto si espande, non rimane null’altro! Quando ero ragazzino c’era un piccolo segno di qualche tomba là al centro, come una sella sul dorso di un cavallo, d’inverno si vedevano solo quelle poche tombe dei Sayed, le uniche tombe dove sventolano le bandiere colorate di scritture. Ora si sono moltiplicate perché anche le tombe dei martiri hanno una bandiera; ora, tutta la collina si sta riempiendo a ospitare gli antenati degli antenati. Vedi questa parte che è scesa sempre più in giù verso la mia terra e dall’altro lato, dove è andata a coprire fino al ruscello, che ora sta morendo senza la sua sorgente? Vedi là in alto? Ecco siccome la valle è sabbiosa, tutte quelle acque scompaiono e poi risorgono da qui, corrono sotto a queste sabbie, la vera sorgente è là, sotto il sedile della grande roccia. Quella parte alta va verso la montagna e quella a sinistra si avvicina alle case e alla moschea…
Come vedi quasi tutti questi morti li ho portati io, sulle mie spalle; eh sì, ho lavato io tutti con queste mani rugose e consumate. Ormai pesa… pesa, sai? Pesano molto le nostre ossa. Penso molto spesso al mio secondo mestiere di becchino, cioè a tutte le sepolture che ho curato, morti di ogni tipo di morte: di parto, di malattie, di guerra; la prossima sarà la mia. Oramai tocca a me, mi vedo già là, ma io da chi verrò trasportato? Io? Ora che sono tutti morti, dalle donne agli uomini, dai giovani agli anziani, dai padri alle madri, dalle sorelle ai fratelli, dai mariti alle mogli…”
Non mi lasciava più andare via, finché non ho bevuto un bicchiere di tè e un po’ di yogurt fresco davanti a casa sua, con un pezzo di pane appena cucinato dalla nuora.
Pochi giorni dopo la mia partenza è stato ucciso dai talebani suo figlio maggiore, che aveva passato delle notti interminabili nascosto nelle grotte e poi… poi è sceso verso casa, come un lupo affamato, pensando che la guerra fosse finita, che avessero portato via tutto quello che volevano. No, la guerra non finisce così presto, anche in quello stato d’animo. Lo hanno picchiato, lo hanno fatto soffrire e poi sono arrivati i colpi finali, uno dopo l’altro. Fortunatamente il padre lo è venuto a sapere molti giorni dopo, quando la gente del villaggio lo aveva già seppellito. Avevano detto delle bugie al padre, che lui è vivo, che è sulle montagne, è in fuga dalla tempesta verso l’Europa, è in esilio in una grotta come un colombo a dormire nel nido e tornerà presto accanto a lui e ai suoi figli. Hanno riempito di illusioni la testa del povero vecchio, per tenerlo ancora in vita; mentre la bandiera della tomba del figlio sventolava già.
Il figlio aveva figli e figlie e una giovane moglie ancora gonfi di amore, lei era rimasta accanto ai figli per attendere un abbraccio del marito e invece era tornato un corpo freddo. Erano rimasti tutti orfani e vedova la donna, perfino quel padre, orbato dal figlio, nonostante tutto continuava a ripetere queste parole: tutto può succedere in questa terra, bisogna prepararsi per qualsiasi evento, con i morti non si può più parlare, dormono fra le braccia della terra e nella nostra povera anima.
Questo povero nonno, una volta padre, una volta ragazzino, prima ancora bambino, pochi anni fa aveva perso la moglie dopo tanti parti; l’aveva presa da un villaggio molto, molto lontano dal suo e il giorno del matrimonio il cavallo e tutte le danzatrici erano passate da quella strada in mezzo al cimitero, quel cimitero che io metto nel mio primo racconto de Il tappeto afghano (edizioni la meridiana, 2019). In quel tratto avevano smesso di ballare per rispetto ai morti e solo dopo erano ripartiti i balli, la musica, i canti, mentre ora là vanno a riposare quei ballerini, là aveva chiuso gli occhi per sempre a sua moglie. Era stato più giovane, ma aveva sofferto molto: in casa non aveva grande autorità, la moglie teneva la chiave della casa appesa sempre al collo. Era una donna intelligente e lavoratrice, sempre al fianco del marito, molto spesso andava a cullare i loro bambini nei campi di grano, di girasole, di trifoglio, così lavorava e faceva compagnia al marito: insomma un vero tesoro per la casa.
L’anziano ormai viveva con i figli e non possedeva alcuna autorità; le figlie, date in sposa, erano tutte lontane dalla casa natale e nella casa natale erano arrivate le mogli dei fratelli.
In Afghanistan, le famiglie si mescolano, così una va via e un’altra arriva a sostituirla nel vecchio nido, e così il mondo femminile è sempre in cerca del nuovo nido, la casa natale diventa come la casa di quegli uccelli che non tornano dove erano nati. L’anziano viveva vedovo da qualche anno, siccome la sua cara moglie lo aveva curato bene, con cibo puntuale e amore infinito, teneva nel cuore questa mancanza: una moglie che gli aveva dato undici figli era mancata e lui tre volte al giorno, dopo la sua preghiera, pregava per questa sua donna. Era solo, triste, non aveva nessuna consolazione, e aveva saputo della morte del figlio maggiore. Aveva pianto tantissimo a questa notizia fino a diventare quasi cieco. Ah, questa morte! Ogni volta che versava lacrime gli si gonfiava il cuore e diceva, rivolgendosi a me ancora con gli occhi aperti: “Volevo essere trasportato e sepolto io, con le mani di mio, mio figlio, invece che vederlo già sepolto. Perché non sono morto io al posto suo? Perché, perché vedere tutto questo?”
Ormai sfinito, vedeva poco, parlava poco, parlava più con l’anima, non riusciva a sedersi da quanto era dimagrito, si alzava e crollava giù. E così si spense pure lui a poco a poco; il più vecchio del villaggio se ne va, il villaggio decade dopo la morte del suo vegliardo! Un mausoleo aperto verso il cielo, un piccolo giardino di fiori piantato intorno. Lasciava un enorme vuoto per tutti e riempiva per ultimo l’intero cimitero con la sua tomba.
Era molto diffuso nel nostro villaggio che il padre rifiutasse di veder morire figli e figlie, ma in realtà non siamo noi a decidere quando andare: la morte ci viene a cercare, ma noi non possiamo andare in cerca di lei. Non dobbiamo essere sciocchi, noi dobbiamo solo essere pronti a sopportare il dolore così come a saper gioire quando arriva la gioia, per assaporare il sapore della vita.
Mentre scrivo questo pezzo mi viene in mente la vita di Alessandro Manzoni, quanti ha visto morire della sua famiglia: padre, madre, due mogli e figli, figlie, nipoti, eppure lui seppe gioire.
Era la fine del mese di giugno del 2021 e mi spostavo in un altro villaggio. Non so se la gente di tutte le terre piange quando si saluta, non so se in Afghanistan c’è sempre stata questa sensibilità o è stata la guerra e l’emigrazione a produrla. Anche se non conoscevo nessuno, mi dicevano “quando arrivi al tuo paese porta una montagna di saluti per la gente che conosci, per la gente che incontri per la tua strada, saluta, saluta tutti”. Si asciugavano le lacrime dietro di me come se io fossi un loro parente stretto e io camminavo, andavo ovunque, mettevo i piedi dove mancava una persona. Quei luoghi per me erano il diario dell’infanzia che non avevo mai scritto, un diario che avrei letto nella mia vecchiaia, un diario del mio vissuto.
Ora questa infanzia non c’era più, dormiva nel petto della terra afghana, le valli si erano svuotate di persone per la siccità, ma ogni mio passo in quella terra mi portava cari saluti. Dove sono andate tutte quelle persone? Cosa cerco io? Sono tutti uniti in un unico cimitero, tutti abbracciano quella bella collina che è diventata la terra di tutti, trasportati da ogni angolo delle valli intorno, mentre quelli che sono andati via non torneranno più qui, rifugiati in altre terre lontane.
Montagne, montagne di saluti.
Gholam Najafi
Gholam Najafi è nato in Afghanistan. Ha trascorso l’infanzia lavorando come pastore e contadino. Dopo la morte del padre, all’età di dieci anni, è fuggito dal suo paese d’origine verso il Pakistan, l’Iran, la Turchia, la Grecia e infine l’Europa. Dal 2006 risiede in Italia, a Venezia, con la sua famiglia adottiva. Si è laureato in soli due anni in Lingua, cultura e società dell’Asia e dell’Africa mediterranea e si è specializzato in Lingua, economie e istituzioni dell’Asia e dell’Africa mediterranea all’Università Ca’ Foscari. Attualmente collabora con il progetto “HERA” nel contesto della migrazione, presso l’Università di Padova e si dedica a scrivere racconti e poesie sulla situazione afghana.
Nei suoi libri racconta la sua storia e la sua vita tra due culture e due famiglie. Scopri i libri di Gholam Najafi e sfoglia la sua ultima pubblicazione, Il sorriso di Melograno.
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Foto: Gholam Najafi