Cosa ne sarà di me? I bisogni “unici e speciali” dei figli delle vittime di femminicidio
Del freddo di quella sera di novembre ricordo lo sguardo. Perso nel nulla lo sguardo del più piccolo. In cerca di risposte, appigli o speranze, quello del più grande, pur consapevole della sofferenza che da quel momento in poi avrebbe preso un’altra forma.
È toccato alla psicologa rendere esplicita la morte della loro mamma, ribaltando il pensiero consolatorio – ultima àncora “di salvataggio” – che fosse solo ferita o che al limite, come il più piccolo ripeteva, che stesse dormendo lì per terra e che si sarebbe a breve risvegliata.
Ma è noto agli esperti che il silenzio su tale aspetto nel tentativo illusorio di allontanare il dolore, non fa bene: disorienta i bambini, lasciandoli soli nel loro caos emotivo, alla ricerca di risposte. Peraltro la notizia di un femminicidio viaggia veloce e si sparge carica di commenti, invettive, giudizi: il modo peggiore per venirne accidentalmente a conoscenza.
“Cosa ne sarà di me?”: la paura camuffata da domanda. Arriva come un pugno nello stomaco. Una paura che deve essere accolta, e che avrà bisogno di tempo, molto tempo, per trovare una qualche risposta.
Da adesso sono “orfani speciali”: sono chiamati così i figli e le figlie di femminicidio che nel contempo perdono entrambi i genitori, una per morte l’altro per carcerazione, con bisogni “unici e speciali” perché figli della vittima e anche del carnefice.
Nell’assurdo contesto di un via vai continuo di carabinieri, magistrati e lampeggianti blu, nella cerchia ristretta dei parenti accorsi e ancora smarriti, con parole semplici e soffuse si parla del cambiamento immediato, del trasferimento presso i parenti disponibili, dell’allontanamento in carcere del padre. La raccolta di oggetti personali, di alcuni indumenti, un pigiama, qualche peluche, tutto il poco possibile prima della prassi giudiziaria dell’apposizione dei sigilli per il sequestro della casa, perché nella nuova vita da ospiti in casa di parenti vi sia un qualche pezzetto della quotidianità precedente.
La sensibilità del Procuratore e del maresciallo dei carabinieri la vedi anche in queste piccole cose: accolgono le richieste dell’assistente sociale che ad altri appaiono insignificanti rispetto alla tragedia, perché ne intuiscono il senso. Non è possibile riavere il cellulare! Quello usato per chiamare aiuto al 118 quando tutto era successo. Quello ora no. Anche se lì sono conservati gli audio con la voce di mamma che ti avvisa che sta rientrando a casa dal lavoro, che dice di fare i compiti, che ti vuole bene.
Per fortuna sarà riconsegnato solo dopo poche settimane, grazie all’intermediazione del tutore che con speciale dedizione si occupa di tutte le pratiche legali. Un cellulare da conservare con cura: ha un valore inestimabile, ora.
Nel solco profondo di questo trauma lavorerà nei giorni immediatamente successivi l’equipe di pronto soccorso psicologico che è stata attivata. Bisogna occuparsi degli interventi di emergenza e, nei mesi successivi, affrontare la rabbia e la tristezza, il fluttuare intenso di emozioni. Non sarà facile: le immagini impresse nella mente che ritornano invasive, i flashback, i trigger, condizioneranno i giorni e le lunghe notti. Bisogna esprimerli, i pensieri, non tacitarli. Una sofferenza emotiva che troverà uno spazio di espressione anche nel corpo e nei comportamenti: problemi del sonno, paura del buio, mal di testa, mal di pancia, aggressività, pianto inconsolabile.
Poi bisogna prepararsi al rito funebre, all’ultimo saluto. Guardare la mamma ancora una volta è un modo per confrontarsi con la realtà del distacco definitivo. Viene spiegato dalla psicologa e dall’assistente sociale, pesando ogni parola e prestando ascolto ad ogni reazione, assecondando l’intenzione di salutarla con una carezza, una preghiera, una lettera, un disegno.
Un saluto che coinvolge una comunità intera che si fa carico di una sofferenza che ormai è di tutti, che ha sconvolto i compagni di classe, i genitori, gli insegnanti, gli amministratori comunali.
Ha sconvolto tutti coloro che sentono la responsabilità sociale della violenza in famiglia, di cui il femminicidio è il tragico epilogo.
Giuseppe De Robertis
Il protocollo prevede nei casi di femminicidio con la presenza di minori l’attivazione in emergenza di una equipe multidisciplinare composta dal Centro di cura del trauma, dal Servizio sociale, dal Consultorio familiare, con la supervisione degli psicologi del centro di riferimento regionale di III livello (Giada). Di particolare interesse sul tema la pubblicazione del Servizio Giada per gli operatori: “Piccoli passi verso i bambini orfani speciali – Indicazioni psicoeducative”.
Per un aggiornamento professionale delle figure che lavorano nell’area della violenza verso donne e minori, consigliamo il webinar “La presa in carico degli orfani speciali” (13-20 gennaio 2025, online su piattaforma Zoom). Scopri tutti i contenuti e come partecipare cliccando qui.
Giuseppe De Robertis è assistente sociale, coordinatore tavolo tecnico multidisciplinare integrato su abuso e maltrattamento all’infanzia e violenza di genere. Da oltre venticinque anni si occupa di tutela delle persone minori di età.