Dalla negazione alla rievocazione: elaborare il trauma pandemico attraverso il racconto e la condivisione
Nel 2020 scoppiò la pandemia. Nel 2021, come per ogni tragedia, si voleva dimenticare e lasciarsi tutto alle spalle.
Fu in quel momento che decidemmo che non bisognava cancellare il ricordo di quanto era avvenuto e stava avvenendo. Bisognava parlarne soprattutto per non creare un vuoto di significati all’interno delle menti dei più piccoli. Decidemmo di avviare una ricerca a livello nazionale per incontrare gruppalmente gli adulti che si occupavano dei più giovani. Si trattava di incontrarsi per otto volte, dialogando a partire dalle frasi raccolte nel libro “Parola di bambino. Il mondo visto con i suoi occhi”[1] per parlare, aiutati dal sentire infantile, dei vissuti che transitavano nella relazione tra adulto e bambino.
Cercammo coordinatori in tutta Italia. Programmammo una ventina di luoghi d’incontro. Alcuni gruppi, però, fu impossibile avviarli anche perché alcuni coordinatori, pur scelti tra competenti professionisti, non riuscirono a trovare parole e forza d’animo per avventurarsi in questa impresa. Si scoraggiarono di fronte alla resistenza della possibile utenza. Ben presto capimmo che investire sul senso dell’evento pandemico era per tutti un problema: non c’era differenza tra le diverse persone interpellate, fossero queste psicoterapeuti, pedagogisti, gruppanalisti o cittadini qualsiasi. Il pensiero comune era che non si stesse delineando una vera emergenza sociale e sanitaria.
Potemmo pensare che affrontare i vissuti relazionali durante i lockdown fosse un salto emotivo che non tutti riuscivano a compiere. Accettammo quindi le defezioni, sia dei coordinatori, sia dei possibili partecipanti, e considerammo questo come il primo dato della ricerca che stavamo realizzando. Le persone ce lo dicevano direttamente: “Non abbiamo voglia di parlare di Covid-19,” e, seppure tentavamo di spiegare che dovevamo solo parlare dei vissuti relazionali comparsi dal lockdown in poi, non si iscrissero.
Nonostante questo il progetto si concretizzò e andò avanti, finché arrivammo nel 2022 a pubblicare il testo che raccoglie la metodologia, i percorsi e gli esiti della raccolta dei sentimenti che hanno animato i vincoli tra grandi e piccoli dalla dichiarazione della pandemia in poi: “Ridisegnare la bussola educativa. Gli effetti del trauma pandemico nei bambini e nei ragazzi”[2].
Dal libro agli incontri: l’importanza del gruppo
Il libro Ridisegnare la bussola educativa ci ha portato in tutte le città (tranne una) dove i gruppi Parola di bambino si sono realizzati e dove via via si trovava necessario parlare degli effetti della pandemia sui bambini. Gli incontri si sono svolti nelle città capoluogo e in molti paesi delle provincie di Trieste, Belluno, Venezia, Padova, Brescia, Mantova, Alessandria, Parma, Verbania, Cosenza per un totale di 20 presentazioni del libro con la presenza di circa 800 persone.
È stato questo anche per noi un nuovo itinerario di scoperte. In ogni incontro, dopo aver presentato metodologia ed esiti della ricerca, seguiva un “silenzio parlante”. La prima volta eravamo all’Auditorium del Centro Candiani a Venezia-Mestre[3]. Sentimmo la forza di quel silenzio dopo aver neutralizzato qualche intervento da parte di chi non riesce a tacere e parla per coprire le emozioni che non riesce a comunicare. Fu un discorso muto penetrante, toccante, emozionante. Chiedemmo: “E voi come avete passato quel periodo?”. Ed è stata questa la vera scoperta.
A partire dalle parole raccolte nel testo, che riuscivano a dare una rappresentazione simbolicamente forte dei vissuti nella vita familiare, scolastica, condominiale, lavorativa di adulti e bambini, emergevano forti e chiari i ricordi. Passammo dalla superficie di chi diceva “Io l’ho vissuto bene, mio figlio non ne ha risentito, è stato un periodo bellissimo, io mi sono riposata”, a emozioni dimenticate e inabissate.
Il gruppo, non più solo platea presente alla presentazione del libro, diveniva il contenitore che permetteva di far emergere paure, sofferenze, dolori, preoccupazioni, angosce. Via via noi stesse divenimmo più capaci di assumere questo assetto mentale dopo aver presentato i contenuti del libro, facendo emergere le sofferenze rimosse, le paure negate, le emozioni cancellate. Questo spazio di dialogo con il pubblico in gruppi allargati ci è parso allora l’ultimo anello del percorso che stavamo compiendo grazie alla ricerca sugli effetti della pandemia nei grandi e nei piccoli.
Fare luce sul trauma attraverso la condivisione
Dalla negazione del trauma siamo passate alla raccolta dei racconti emotivamente condivisi sulla sofferenza patita e sugli effetti che la rottura della continuità delle abitudini di vita ha avuto nelle relazioni. I sintomi purtroppo oggi sono più visibili di allora: in questi anni troviamo meno resistenze a parlare degli effetti della pandemia nei vincoli che uniscono le generazioni, perché tutti hanno potuto notare l’impennata di sintomi nei bambini e negli adolescenti. Ma spesso pochi sanno rimettere in narrazioni significative ciò che è avvenuto.
Ci siamo trovate a ricordare che è importante pensare che età avevano i piccoli durante la pandemia. Ci siamo impegnate a trasmettere un metodo per ascoltare i giovani arrabbiati per ciò a cui avevano dovuto rinunciare. Abbiamo chiesto a tutti di imparare a porre queste domande: “Come sei stato? Cosa hai fatto? Quali ricordi hai di quel periodo?”, punto di partenza per avviare nuovi contesti di discussione in cui riparare il dolore vissuto attraverso la condivisione con altri. Potenza del gruppo. Forza di una attenta coordinazione. Conoscenza della teoria. Curiosità bioniana senza desiderio e senza memoria.
Se all’inizio del percorso pensavamo che ritrovarsi in un gruppo coordinato potesse essere un’opportunità per rielaborare il dolore della discontinuità, della perdita e dello smarrimento emotivo, oggi siamo certe che il gruppo curi questi affanni. E la banalità della frase “Andrà tutto bene”, così tanto ripetuta in quei giorni, è divenuta serio impegno ad affrontare il tema del trauma che fa negare la paura, ma fa soffrire.
Immagini ed evocazioni per dare voce al trauma collettivo
Mettiamo in cerchio in modo virtuale tutte le persone che hanno dialogato con noi in questi anni a partire dal libro. Lasciamo discorrere e scorrere via chi vuole ancora negare la sofferenza di quei giorni. Condividiamo qui di seguito, invece, alcune delle voci di chi ha voluto darci un pezzetto della sua esperienza. Parole che hanno risuonato nel nostro cuore oltre che nella nostra mente. Per non dimenticare. Per sentirci uniti nella nostra umanità. Per condividere il sentire emotivo che ci ha traumatizzato.
Laura, una elegante signora, racconta la sua esperienza di medico durante quei mesi. Notiamo che porta la mascherina, e siamo alla fine del 2024. Ma aspettiamo che lei stessa ci porti lì: a quella mascherina che oscura il volto e che deforma la voce. Laura ci racconta che un giorno ha scoperto di essere una positiva al Covid-19 asintomatica, e che nel frattempo aveva contagiato molte persone. Alcune erano morte. E da allora non riusciva più a togliersi la FP2 per proteggere chi le stava accanto. Il senso di colpa tuttora la tormenta e crede che non sopravviverebbe se si dovesse ripetere questa vicenda. Quindi, emozionata, ci confida: “Sempre e comunque con la mascherina per difendermi dalla paura di essere una “persona contagiosa”, portatrice di malattia”. L’untore.
Fabrizio, assistente sociale, ci racconta la sua paura di morire nel maggio del 2020. Ricoverato. Intubato. Affannato. Isolato dalla famiglia. Spaventato che si ammalassero anche i due figli e la moglie. I pensieri di morte furono atroci: la paura di lasciare la famiglia sola, l’angoscia nel non poterli vedere, il pensiero affannato di non poter salutare Monica, sua moglie, di andarsene da questo mondo senza vederla un’ultima volta. E intanto il respiro diventava sempre più difficile. Fabrizio tra i singhiozzi afferma: “Una videochiamata per dirsi addio è troppo poco, dopo una vita insieme, due figli ancora da crescere. Una storia che finisce dietro ad un monitor”.
Prima a voce spenta e poi sempre più decisa, suor Anna ci racconta la sua esperienza ospedaliera in isolamento. Il suo affidarsi a Dio e il suo aggrapparsi alla vita attraverso i disegni che i bambini le facevano pervenire. Dice: “Fu la loro presenza a darmi la forza per lottare contro il virus”. E poi, commossa, aggiunge: “Ma ho visto la morte da vicino e mi ha fatto paura”.
Anna, una giovanile nonna dal piglio deciso, ci racconta che la sua nipotina, Penelope, è nata durante il lockdown del 2020. Ed ora, nel 2024, non accetta di avvicinarsi a nessun estraneo. Quando lei la porta al parco le sta abbarbicata al petto e se la mette giù si appiccica alla sua gonna. Il mondo fuori le fa paura. Si chiede: “Questo suo atteggiamento avrà a che fare con la paura che le abbiamo creato durante gli anni della pandemia?”
Una simpatica signora dal corpo robusto e gli occhi vispi con timidezza chiede la parola e ci porta ai primi mesi del lockdown. Lei, cassiera in un supermercato, va giornalmente a lavorare mentre marito e figli rimangono chiusi in casa. Ma lei esce. Esce e può contagiarsi e contagiare i suoi cari. Paure e sensi di colpa la attanagliano giorno dopo giorno. L’arrivo a casa è contraddistinto da una veloce spogliazione degli abiti, lasciati in uno scatolone fuori casa. Entrata nell’appartamento, immediatamente si fionda sotto la doccia e fa grande uso di sapone e disinfettante. E poi nessun abbraccio con i familiari, notti quasi insonni nel divano di casa. Il racconto qui si ferma, ma i partecipanti all’incontro rimangono agghiacciati compartecipando all’ansia di questa giovane signora. Infine qualcuno osa affermare: “Mi sento in colpa per aver abitualmente in quei mesi frequentato più volte al giorno il supermercato. Non avevo mai pensato alla paura delle commesse e delle cassiere. Scusami.”
Maria Rita, una anziana signora con due occhi vispi dietro a delle lenti spesse, si fa forza e alzando un po’ alla volta la voce racconta di quei giorni terribili. I suoi due nipoti, Filippo e Tommaso, non poteva vederli. Li sentiva al piano di sotto saltare, urlare, ridere, e se li immaginava chiusi lì dentro. Li immaginava perché non era possibile nemmeno scendere un piano e andarli a trovare. Si ricorda come in quel momento pensasse che la vita era finita: aveva paura di non poterli stringere di nuovo tra le sue braccia. Furono mesi nei quali tutto sembrava non sarebbe mai tornato alla normalità.
I genitori di Gianni, un caro allievo psicoterapeuta di una di noi, piangono silenziosamente. Mi chiedo cosa stia passando nella loro mente. Li guardiamo e ci capiamo profondamente. Senza parole. L’angoscia della morte e del destino dell’umanità risuona dentro di noi.
Concludiamo il racconto con queste testimonianze, sperando che diventino strumento per ascoltarci reciprocamente non solo in ciò che abbiamo vissuto, ma anche nella preoccupazione di ciò che sta succedendo a casa, a scuola, nella comunità.
Paola Scalari e Marcella de Pra
[1] Berto F., Scalari P., Parola di Bambino. Il mondo visto con i suoi occhi, edizioni la meridiana, Molfetta 2013
[2] Ridisegnare la bussola educativa, effetti del trauma pandemico nei bambini e nei ragazzi (a cura di Scalari P., de Pra M.) edizioni la meridiana, Molfetta, 2022
[3] Avevano parlato del testo, introdotti da Marcella de Pra, Paola Scalari, Alessandro Taurino, Elvira Zaccagnino, Rosangela Paparella, Nicoletta Livelli.
Paola Scalari è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista; da anni è consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe di associazioni, enti ed istituzioni che operano nei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Marcella De Pra è assistente sociale e mediatore familiare. Ha sempre operato nell’area consultoriale seguendo diversi progetti pilota a sostegno all’infanzia e adolescenza.
Insieme sono curatrici del libro Ridisegnare la bussola educativa. Gli effetti del trauma pandemico nei bambini e nei ragazzi, pubblicato nel 2022 dalle edizioni la meridiana. Se vuoi organizzare incontri attorno a questo libro scrivi a scalari@paolascalari.eu.