Dentro le comunità di accoglienza: cosa succede ai tempi del Coronavirus
Il 4 marzo a casa mia c’era aria di festa: il compleanno di mia figlia. Un pranzo gioioso con gli amichetti, il caffè e un buon dolce con le mamme, i compiti tutti insieme, tanti giochi, risate, frittelle calde, la torta, le foto. Mentre i bambini giocavano, noi adulti seguivamo con i cellulari gli aggiornamenti… poi, ad un certo punto la notizia: scuole chiuse!
I bambini erano euforici, letteralmente impazziti dalla gioia. Abbiamo fatto insieme a loro un mega trenino per festeggiare la chiusura. Uno vicino all’altro…. ci si abbracciava ancora, si rideva, si saltava.
Certo, i bambini erano convinti che fosse l’inizio di una bel periodo di vacanza. Mica male, ‘sto Coronavirus! E, a dire il vero, a parte lo smarrimento iniziale sull’organizzazione necessaria per il giorno dopo, anche noi adulti eravamo abbastanza inconsapevoli di quello che sarebbe accaduto veramente alle nostre vite di lì a poco. Invece, dal 4 marzo siamo stati tutti catapultati in un tempo diverso.
Questo è lo scenario o, come si dice, la cornice, una cornice strettamente personale. Il focus della mia riflessione/racconto, però, è assolutamente un altro.
Un nuovo modo di gestirsi e gestire
Da oltre vent’anni ho l’onore e l’onere di coordinare due comunità di accoglienza: una comunità educativa per bambini 0-10 anni e una comunità per madri con figli, con un appartamento per l’accompagnamento all’autonomia attualmente abitato da due mamme, che sono state accolte in comunità.
Il 4 marzo segna il passo per le nostre vite personali, ma anche per la vita nelle comunità.
In primis abbiamo dovuto far fronte all’emergenza potenziando i turni mattutini, cosa naturalmente non semplice e scontata. Per fortuna – dai, mettiamola sul positivo – abbiamo potuto attingere alle educatrici del nostro micronido, ovviamente chiuso come tutte le scuole.
Io personalmente ho dovuto ripensare completamente al mio lavoro, rimanendo come tanti a casa per ridurre al minimo gli spostamenti, ma continuando a garantire il collegamento e coordinamento tra i servizi pubblici (tribunale, servizi sociali, servizi territoriali) e gli educatori impegnati quotidianamente nelle due comunità.
Sin dai primissimi giorni ho sentito nell’aria un certo nervosismo in entrambe le comunità, seppur inizialmente abbastanza contenuto. Gli educatori mi riportavano una sottile paura, soprattutto legata al rischio connesso al mantenimento degli incontri dei bambini con i rispettivi genitori o parenti nella comunità educativa, e agli incontri con i papà e i compagni nella comunità delle mamme.
Il 9 marzo, con le nuove disposizioni ministeriali, ho inviato un’urgente nota ai servizi sociali per comunicare l’immediata sospensione degli incontri e l’attivazione di sole videochiamate.
In certi casi, abbiamo dovuto gestire la rabbia dei genitori dei bimbi della nostra comunità. Alcuni di loro non avevano ancora ben capito cosa stesse accadendo e ritenevano, la nostra, una decisione arbitraria ed esagerata. Per fortuna ci è venuta in aiuto una nota inviata dal Presidente del Tribunale per i Minorenni, che invitava le comunità a sospendere gli incontri con genitori e parenti in tutte le strutture residenziali. Ai bambini abbiamo spiegato che per un po’ sarebbe andata così: niente scuola, niente uscite, niente incontri con i genitori… solo un giro in giardino.
Dentro le comunità di accoglienza: cosa succede ai tempi del Coronavirus
I bambini ci sorprendono sempre. Hanno compreso perfettamente, anche se in questi giorni spesso gli educatori devono accogliere e gestire il loro nervosismo, le loro tristezze, le loro lacrime: “Voglio mamma, mi manca mamma… Ma quando potrò di nuovo incontrarla?”
L’attesa di una videochiamata che per qualcuno non arriva, perché la mamma o il papà lo hanno dimenticato, fanno precipitare il bambino in uno sconforto che poi sfocia in tensione, pianti, isterismi.
La distanza di sicurezza? Impossibile da mantenere in una comunità come la nostra, che accoglie bambini anche piccolissimi. Otto ore di turno con le mascherine? Una vera tortura che talvolta porta all’iperventilazione. I bambini sono costretti a guardare solo gli occhi e a volte i piccoli te l’abbassano… chissà cosa pensano nel vedere i volti che conoscono all’improvviso mascherati. Che effetto ha nella relazione con loro? In questo momento storico, la differenza fra una famiglia e una comunità per bambini è veramente più accentuata che mai.
Diversa è la situazione della comunità degli adulti, quella con madri e figli, e decisamente più complessa su diversi fronti. Mettere in isolamento adulti con abitudini consolidate e spesso con una fragile consapevolezza è stata ed è ancora un’impresa difficilissima.
Una nostra giovane mamma si è allontanata dalla comunità in diverse occasioni, senza alcuna autorizzazione e nonostante le fosse stato spiegato più volte che il suo comportamento è anche penalmente perseguibile.
La tensione in comunità via via è diventata altissima: diverse volte abbiamo dovuto sedare gli animi delle altre giovani ospiti, alcune di queste con problemi di salute o con bambini malati. Quando si scatenano dinamiche conflittuali fra adulti, tutti gli equilibri (già spesso molto precari) saltano definitivamente. Ho sentito che la situazione stava degenerando quando un’educatrice storica, una di quelle che lavorano da oltre dieci anni con noi, al telefono è scoppiata a piangere: “Patrizia, non ce la faccio. Sento che sta esplodendo una bomba! A me tutto questo non sembra giusto. Noi veniamo qui al lavoro, per amore, passione e grande senso di responsabilità, ma non mi sento tutelata! Dobbiamo fare in modo che le regole vengano rispettate da tutti.” Poi ha aggiunto: “Se la situazione continua così, non verrò più a lavorare… ho due bambine a casa e mio marito, come sai, ha dei problemi di salute. Non me la sento di venire qui a rischiare per una irresponsabile. No, non ci sto!”
Questo sfogo arrivava dopo che avevamo scoperto che, per la terza volta, la giovane madre era uscita e aveva incontrato il suo compagno che veniva da Bari, infischiandosene delle limitazioni agli spostamenti.
In quel momento ho sentito grande impotenza e rabbia, ma anche tanta solitudine. Poi ho recuperato un po’ di lucidità e ho informato la giovane mamma che sarebbe partita l’ennesima segnalazione, questa volta non solo al Tribunale per i Minorenni, ma anche ai vigili urbani, ai carabinieri e al Sindaco di Molfetta e Bari.
Il Sindaco di Molfetta, appena ricevuta la mia mail, mi ha chiamata. Si è messo a completa disposizione della nostra comunità per garantire ogni intervento necessario e possibile a sostegno di noi tutti, per far rientrare la tensione, che ormai in comunità era diventata altissima.
Qualche giorno dopo, anche nell’appartamento del progetto di semi-autonomia abitato da due mamme con figli, si è ripetuta una situazione analoga. Una delle due mamme ci ha segnalato che l’altra giovane donna sistematicamente usciva nelle ore serali o notturne, facendo rientro in casa tardissimo e, ovviamente, portandosi dietro la sua bambina.
È una polveriera che sta esplodendo! Ho la convinzione che questa partita la vinceremo solo se tutti ci diamo una mano, se diamo lo stesso senso alle cose, ma non è assolutamente così e non potrà mai essere. Il livello di consapevolezza e di responsabilità, in molti casi, è molto basso. Gli operatori si ritrovano spesso soli a gestire situazioni che richiedono invece un intervento sinergico con le istituzioni.
Per un nuovo gioco di squadra tra i diversi servizi
In tutta questa solitudine, che talvolta diventa angoscia, qualcosa però si muove, prende vita.
L’ho vissuta proprio come una carezza, la telefonata ricevuta l’altro pomeriggio dal Pronto Intervento Minori della Procura minorile di Bari, che in questi giorni ha avviato un monitoraggio telefonico per conoscere le condizione di tutte le strutture di accoglienza, con l’invito a segnalare situazioni di difficoltà e di emergenza.
Mi diceva il maresciallo del Pronto intervento Minori che in questo momento storico alcune situazioni famigliari, già difficilissime e complicate prima di questa emergenza sanitaria, stanno letteralmente esplodendo. La cosa più grave è che la Procura sta inviando richieste di indagine ai servizi sociali, che però non possono attivare nessun intervento concreto (molti operatori sono autorizzati soltanto al lavoro da casa).
Serve un gioco di squadra coordinato con gli operatori dei diversi servizi territoriali per raggiungere i bambini invisibili e le tante donne vittime di violenza domestica. La violenza e le fragilità, in momenti come quello che stiamo vivendo, possono solo acuirsi.
Forse, oggi, paghiamo il prezzo di un lavoro che è mancato in tutti questi anni: ci sono generazioni intere che non sono state educate alla responsabilità, al rispetto delle regole. Se oggi ci ritroviamo tutti così esposti è forse perché non abbiamo lavorato abbastanza per educare al rispetto, alla privazione, alla rinuncia, al bene comune, al senso di appartenenza ad una comunità.
Rimbocchiamoci le maniche e iniziamo da qualche parte. C’è sempre un nuovo inizio e l’iniziare è sempre gesto generoso, è offerta, è incontro con l’avvenire.
La vita è precaria, “flottant” scriveva Paul Ricoeur, incerta, titubante. Ci si trova in vita prima ancora di esercitare la propria volontà. Ma poi la vita sfugge, si sottrae al controllo. Occorre continuare a volerla, a sceglierla, ad aver cura di essa e per essa.
a cura di Patrizia Depergola
Patrizia Depergola è responsabile di comunità di accoglienza e dei servizi educativi della cooperativa “La strada e le stelle” di Molfetta (BA).
Sul tema del coordinamento tra i servizi che si occupano dei più fragili, sfoglia alcune pagine de “Il bambino in pezzi. Ricomposizioni possibili tra il Sistema Giudiziario ed i Servizi di Tutela” a cura di Lia Chinosi e Paola Scalari (edizioni la meridiana, 2014).