Cronache dal futuro: un progetto per dar voce ai giovani
Il lockdown dello scorso anno ci ha preso tutti alla sprovvista.
Sono stata colpita da una crisi personale e professionale, che mi ha procurato una sorta di afasia. Riuscivo a scrivere ma non a parlare. Sentivo il bisogno di fisicità, dell’aggancio con lo sguardo, della mia bussola che funzionava bene in presenza nel cogliere umori ed emozioni dei miei studenti. Senza la presenza, mi sentivo grigia e inadeguata.
Dopo una settimana di corrispondenza, fittissima, e invio di materiali alle classi, ho vinto la mia piccola battaglia: ho ripreso la parola e ho frequentato ogni giorno i miei studenti fino alla fine dell’anno scolastico. I loro volti esprimevano un non detto a volte sofferente, a volte rilassato, a volte ottimista, spesso annoiato e assonnato, soprattutto durante la prima ora. Così ho scoperto che, in generale, dormivano poco.
Ho cercato di uscire dal freddo contatto online, di creare spazi di ascolto, di reinventarmi.
Per raccontarci reciprocamente come stavamo, ci siamo accordati che all’inizio di ogni incontro online ci saremmo scambiati i nostri mood, esprimendoli con un colore – di che colore sei oggi? –, oppure con la musica o con un’opera d’arte. Un ‘compito’ che tutti hanno accolto di buon grado, nessuno si è tirato indietro. Un piccolo tempo a disposizione per sentirci ‘parte’ e uscire dall’anonimo mosaico di quadratini dello schermo. Molti di loro mi scrivevano, per raccontarmi perché avevano scelto proprio quella canzone, quella sinfonia, quell’opera d’arte.
Non li ho più incontrati fino a settembre, i miei studenti, i vecchi e i nuovi.
Dopo molti anni, per la prima volta, tornavo a scuola con le mie parti interne in pieno subbuglio e conflitto e con tante domande. Come riprendere il filo della relazione con le ragazze e i ragazzi? Come stavano? Quale impatto ha avuto e ha il loro e nostro navigare nell’incertezza?
Riannodare i fili, dare spazio all’ascolto
La pandemia ci costringe a riflettere, a metterci in gioco, a cercare strategie efficaci per rendere vivo l’ambiente di apprendimento, ma anche per capire cosa sta accadendo dentro e fuori di noi. Nasce in questo sentire magmatico l’idea di raccontare il presente staccandosi da esso, proiettandosi in avanti, nel futuro. Nel nostro stare a scuola (finché è durata) a corrente alternata (metà in classe, metà a casa) volevo riannodare i fili, lasciare spazio a loro.
Un’esigenza dettata da motivi personali, perché colpita dal Covid-19 personalmente e nella mia famiglia, ma anche dalla necessità di dare testimonianza di questo nostro tempo, di osservare i cambiamenti nei comportamenti sociali che danno motivo di preoccupazione per il futuro e spingono a un imperativo categorico: dobbiamo occuparcene! È evidente e preoccupante che la società attuale non sappia (o non voglia?) rispondere ai problemi dei giovani.
Un viaggio nel tempo: il progetto “Cronache dal futuro”
Dunque ho chiesto ai miei studenti di fare un viaggio nel tempo. Li ho invitati ad immaginarsi tra 20 anni e raccontare, magari a un bambino o a un coetaneo, il “loro” 2020, un anno che ci ha spiazzato, disorientato, ci ha tolto certezze.
Ma per loro, cosa è stato? Creare un distacco temporale aveva lo scopo di portarli “fuori da sé” e rendere più facile il raccontarsi. Le ragazze e i ragazzi hanno accolto l’invito senza riserve e scritto con immediatezza nel poco tempo a disposizione le loro narrazioni. Ne avevano un gran bisogno. Le ho raccolte senza alcuna mediazione e, con il contributo delle edizioni la meridiana, ne pubblicheremo diversi su questo blog. Desidero ringraziare tutti i ragazzi e le ragazze che hanno partecipato.
Con le loro storie, a volte telegrafiche, a volte dettagliate, ci mostrano un universo variegato con alcuni tratti comuni: vulnerabili, ma anche resilienti e, soprattutto, pensanti.
Il periodo di isolamento li ha portati a viaggiare dentro di sé, ad interrogarsi sulla vita, sui loro valori di riferimento, sulla qualità delle loro relazioni.
Mettendo insieme i loro scritti e rileggendoli, mi sono resa conto che avevo tra le mani un materiale vivo, palpitante e ricco, che non doveva finire in un cassetto. I testi li ho condivisi con tutti loro, perché ciascuno potesse sentirsi meno solo, perché nelle narrazioni ci sono tanti indizi e prove di resilienza, di ricerca di collocarsi nel mondo, di conoscersi e di conoscere, incluse le ragioni di un ‘collasso’ che, disfacendo il tessuto di confortevoli e artificiose certezze, ha fatto emergere l’urgenza di un cambiamento necessario.
Gli studenti hanno capito bene la sindrome della rana bollita, una delle metafore che racconto quando affrontiamo le sfide della complessità e della sostenibilità.
Per-sonare, parlare attraverso per esprimere emozioni e sentimenti forti
Siamo tornati tutti a distanza all’inizio del mese di novembre. Di nuovo il distacco, di nuovo l’esigenza di fare spazio all’ascolto che non si limitasse al chiedere ‘Come stai? Come state?’.
Le esperienze pluriennali di teatro, di incontri con la maschera e i suoi significati nell’arte e non solo, la riscoperta delle maschere di Saul Steinberg fotografate a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 da Inge Morath, mi hanno spinto a condividere con gli studenti di una classe una nuova proposta: comunicare il proprio mood attraverso la realizzazione di una maschera, sulla falsariga di quanto sperimentato da Steinberg, utilizzando sacchetti o fogli di carta.
Prima di raccontare cos’è accaduto, ripercorriamo brevemente la vita dell’artista che ci ha ispirato, che significa ripercorrere il novecento e i suoi drammi. Saul Steinberg era ebreo, fuggito dalla Romania e dal suo violento antisemitismo nel 1933, approdato in Italia e poi da qui emigrato, dopo le leggi razziali del 1938, non senza disavventure che non ha mai voluto condividere, riuscì ad approdare finalmente negli Stati Uniti nel 1942. Un artista poliedrico che ha spaziato in molti campi, dalla grafica alla pubblicità, dalle scenografie ai murales. L’arte è stata anche la sua cura, le sue maschere terapeutiche.
La serie “Masks” nasce da un connubio con Inge Morath, fotografa dell’Agenzia Magnum, una donna straordinaria, che ha attraversato il mondo e frequentato le avanguardie artistiche del ‘900 e i teatri di guerra. Dopo la seconda guerra mondiale, nel suo lavoro più maturo, è impegnata a documentare “la resistenza dello spirito umano in situazioni di estrema coercizione, così come nelle sue manifestazioni di estasi e gioia”.
L’idea di portare la maschera tra i miei studenti si rafforza anche per questo motivo, perché ci siamo trovati e ci troviamo in una situazione di coercizione (anche se meno dolorosa, fatto che merita una riflessione sulle nostre reazioni alle misure anti-Covid-19).
Inoltre volevo combattere la noia sempre in agguato nelle lezioni a distanza. Imparare ad evitare la noia attraverso la creatività era per Steinberg uno degli scopi più importanti. Così come era importante per la sua arte l’idea del travestimento. Tutti indossiamo una maschera, reale o metaforica: “la maschera”, scriveva Steinberg, “è una protezione contro la rivelazione”, ma, nel contempo, rivela ciò che non si può dire. Anzi, si fa parola.
Ricordando una conversazione con un filosofo, penso anche alla relazione tra maschera e persona. Nel mondo latino la parola persona significava maschera teatrale. Per-sonare significa parlare attraverso: permettere alla parola di uscire dalla bocca della maschera che ne amplifica la voce. Parola e immagine si fondono.
La maschera tornerà sicuramente durante quest’anno scolastico, quando incontreranno Luigi Pirandello, vissuto negli anni in cui si sviluppa anche la psicoanalisi; siamo ancora nello stesso filone di riflessione, di maschera e persona, di frantumazione dell’identità, dell’essere e dell’apparire: Uno, nessuno e centomila.
Con tutti questi stimoli, arriva il giorno convenuto: un’ora volata via, ma anche un tempo denso e quindi dilatato. Ognuno concentrato sulla sua opera, ognuno con la sua musica, ma insieme. Penso che si siano sentiti più uniti di quando non siano fisicamente in classe, abbiamo sentito forte e chiaro il senso del noi, un senso che sembra essersi perduto nel delirio pervasivo della prima persona singolare che ha colpito il mondo.
Alla fine del tempo a disposizione, abbiamo tutti sollevato la nostra maschera, ho fotografato lo schermo, e ho chiesto loro di inviarmi un selfie con la loro maschera indossata.
Le maschere si sono trasformate in opportunità per liberarsi di nodi nascosti, per comunicare ciò che non si può dire, per riflettere su di sé, per sentirsi parte di una comunità. In questo caso la maschera rivela, tanto a chi l’ha realizzata quanto a chi la vede.
Accostare testi e immagini, prodotti in momenti diversi, è stata la naturale conclusione di questo percorso, che proseguirà, magari allargandosi ad altri contesti, in altri luoghi.
Le parole risuonano attraverso le maschere. Le maschere rivelano e mostrano il senso profondo del sentire. Le ragazze e i ragazzi sono cresciuti e, ne sono convinta, sapranno fare meglio di noi.
Diamo loro una voce
E noi, e voi che leggete e avete a che fare con loro? Vi invito a interpretare con un flash la situazione della nuova generazione, accogliere la visione del momento e riflettere possibilmente sulle cose che gli adulti non hanno fatto, che hanno dimenticato, che non hanno visto.
Le relazioni tra le generazioni sono importanti per il nostro futuro. Il rapporto tra le generazioni è disturbato. I politici agiscono in modo “coerentemente incoerente”, sono preoccupati per se stessi e incapaci di ascoltare le voci delle giovani generazioni.
Noi docenti affrontiamo quotidianamente questa fascia di età, ne conosciamo le esigenze e dalla pratica quotidiana nascono suggerimenti intelligenti. Sfortunatamente, la strada verso il pediatra non è lontana. I disturbi psicofisici a lungo termine sono già stati previsti: noi genitori e insegnanti dovremmo, e possiamo, fare qualcosa al riguardo: ascolto, comprensione, riflessione e apprendimento.
Infine, diamo loro una voce che può essere ascoltata anche nei social network e in politica. Perché è necessario? In tutte le previsioni si può leggere che la situazione Covid-19 ci preoccuperà e ci minaccerà per molto tempo. I partner per il nostro futuro e anche coloro che devono trovare nuove soluzioni per noi sono coloro che ora hanno dai 12 ai 18 anni. Oggi, però, dobbiamo assicurarci nostri partner lo diventino davvero.
a cura di Raffaela Mulato
I testi dei ragazzi della serie Cronache dal futuro saranno pubblicati ogni settimana su questo blog, insieme alle 21 maschere realizzate dagli studenti di Raffaela Mulato. Seguiteci, qui o sui nostri social, per leggerli di volta in volta.
Raffaela Mulato, laureata in Pianificazione urbanistica e docente di geografia, svolge attività di consulenza nel campo dell’educazione ambientale e alla cittadinanza attiva, della progettazione e della pianificazione urbanistica e ambientale e partecipata. Ha fondato l’Associazione onlus “Moving School 21”, di cui è presidente, che coordina progetti e iniziative in diversi contesti territoriali ed europei, con il coinvolgimento delle scuole e del territorio. È autrice di articoli e testi sui temi dell’azione locale partecipata, di simulazione nell’ambito dello sviluppo urbano sostenibile, dell’analisi ambientale, della progettazione partecipata con i bambini, del rapporto bambini-educazione-spazio-città. Per edizioni la meridiana ha pubblicato “Scarpe blu” (2013) e “Maestra facciamo una pausa?” (2014).
Per ascoltare le voci dei ragazzi e i loro sentimenti durante il lockdown ti consigliamo la lettura di “Scatto di famiglia. Storie ed emozioni di adolescenti in quarantena”, nato da un concorso letterario indetto dal Centro Asteria di Milano, a cui hanno partecipato studenti da tutta Italia per raccontare, attraverso la narrazione e la scrittura, la propria visione della quarantena vissuta da marzo 2020.