iGen: chi sono e di cosa hanno bisogno i nuovi bambini e ragazzi di oggi?
Nel 2018 esce in Italia il libro Iperconnessi di Jean Twenge. Tema la iGeneration (iGen), quella dei nati tra la metà degli anni ‘90 e la fine degli anni 2000 circa. Un testo importante per chi si occupa di educazione perché, rispondendo alla domanda: iGen, chi sono e di cosa hanno bisogno?, offre quella nitidezza minima sui cambiamenti generazionali senza la quale si annaspa nel quotidiano educativo, aggrappandosi spesso ai propri pregiudizi.
Vale la pena confrontarsi con i dati statistici delle grandi survey americane per due ragioni importanti. La prima è che, a parte piccole differenze di contesto, le realtà americana ed europea/italiana sono equiparabili, soprattutto in virtù dell’elemento che caratterizza gli iGen: è la generazione che non ha conosciuto un mondo senza web e senza smartphone, oggetto che approda a tutti nel 2011-2012. La seconda è che i sondaggi longitudinali, analizzando i trend da decenni, sono in grado di evidenziare impennate e picchi nei grafici che segnano bruschi cambiamenti e direttrici inaspettate nei comportamenti delle popolazioni. È quanto accade con gli iGen e le date sono proprio quelle relative alla comparsa e la diffusione dello smartphone.
Per noi che abbiamo a che fare quotidianamente in casa, nelle scuole o nelle università con gli iGen, alcuni dati saranno una conferma di intuizioni e di conoscenze empiriche, che vale la pena tenere in conto mentre un intero pianeta ha da cimentarsi con la riprogettazione della vita sociale post Covid-19. Penso in particolar modo alla scuola.
La scuola: un’istituzione rassicurante per la sua capacità di non cambiare
Per decenni la scuola ha rappresentato un luogo rassicurante per molti dei suoi soggetti, in virtù della sua incredibile capacità di non cambiare. Nonostante mille riforme piovute addosso a insegnanti e famiglie, la scuola italiana è una campionessa di immobilità: le tensioni innovative non hanno mai preso piede e sono restate appannaggio di eroi ed eroine donchisciottesche. In generale l’istituzione è per diritto di nascita un monumento alla solidità rassicurante e, tra le istituzioni, la scuola è uno dei pilastri nazionali.
È stata rassicurante per i e le docenti, specie di ruolo, accomodati dentro una routine lavorativa che è immune da licenziamenti anche se si commettono gravi inadempienze, che non è finora mai stata sottoposta a una forma adeguata di valutazione della qualità dell’insegnamento e della relazione educativa (l’INVALSI non si occupa di questo), che si alimenta di comportamenti autolegittimanti fondati sull’abitudine. È anche per questo che, a beffa di chissà quanti corsi di formazione (della cui qualità e utilità sono in forte dubbio, dato il mercato selvaggio da anni in pieno rigoglio), le pratiche più consolidate nella quotidianità scolastica da decenni non hanno visto cambiamenti: le aule sono oggi identiche a quelle della mia infanzia, bambini e ragazzi sono tutt’ora immobili nei banchi per ore ad ascoltare qualcuno che parla e spesso li annoia a morte, i compiti continuano imperterriti a tediare anche le ore pomeridiane (passate pure quelle immobili a un banco domestico), spiegazioni frontali e interrogazioni segnano le lezioni insieme all’ampio repertorio mai passato di moda di note, punizioni individuali e di classe, ricatti, rimbrotti, umiliazioni e compagnia bella. A eccezione dei già citati donchisciotte, la scuola – che piaccia o no a chi leggerà questo articolo – è straordinariamente capace di restare identica a sé stessa nei decenni, mostrando anche come tutte le osannate innovazioni tecnologiche siano incapaci di incidere sui comportamenti educativi.
Autolegittimandosi da sé, priva di una valutazione indipendente ed esterna, la scuola resta rassicurante perché impermeabile a qualunque elemento potenzialmente perturbante, anche quando chi ci vive dentro ci sta malissimo: va così, ci dice la scuola, ci sono e ci saranno sempre docenti in gamba e docenti senza alcun amore per il loro lavoro, docenti appassionati e docenti (dicono poi i ragazzi) che vanno solo a prendersi lo stipendio; ci sono e ci saranno i soliti genitori che rompono le scatole, i bambini belli e bravi, “scolarizzati” (una delle parole che più mi fa orrore del lessico scolastico) e quelli a cui le materie non entreranno mai in testa e non ci puoi fare niente, tanto vale non tormentarli e lasciarli là… insomma, panta rei, tutto cambia perché tutto resti uguale: si entra alle 8, si esce alle 13:30, si fanno le ore di lezione, si usa il registro (di carta o elettronico), la lavagna (di carta o elettronica), i libri (molto più di carta che elettronici), i quaderni tutti ordinati, si danno i compiti e tutti felici e contenti. Un flusso così regolare da mettere a posto le coscienze di (quasi) tutti.
Una macchina dentro la macchina sociale
Questo vale anche per tanti alunni e alunne e pure per i genitori che, a lavoro o a casa, possono contare sul parcheggio infantile per eccellenza senza doversi far prendere da sensi di colpa: dopotutto è per il loro futuro. La capacità strutturante della routine è ben nota, crea confini sicuri, occupa gli spazi incerti che potrebbero generare horror vacui, detta con la sua semplice scansione il bene e il male della quotidianità, conferendo normatività alla banale realtà di ciò che è.
Deresponsabilizza attraverso la dipendenza, in altre parole. Sì, sì, ho proprio scritto “de-re-spon-sa-bi-liz-za”, il contrario della retorica dell’autonomia e della responsabilità.
E lo fa con tutti gli attori e le attrici del sistema: i docenti si sentono a posto facendo quello che “si fa” a scuola, da bravi ingranaggi oliati; ragazzi e bambini imparano a obbedire non più agli ordini come negli anni ’50, no, ora siamo in piena recrudescenza (causa agonia? Speriamo…) del sistema taylorista-fordista: si obbedisce alla macchina e alle sue esigenze in modo seriale, industriale e anche finanziario, accumulando punti nel conteggio dei crediti e dei debiti in una perenne transazione di mansioni da eseguire. La scuola è una macchina dentro la macchina sociale. Una macchina funzionale alla macchina sociale.
Non vedere la macchina dietro la scuola significa assumere la cecità a modus vivendi, è perseverare nell’errore, diabolicamente. Perché, nella macchina, così ben spiegata da lucidi analisti già da metà ’800, che alcuni individui facciano diversamente è irrilevante, è insignificante, anzi può persino fare comodo alla riproduzione dei meccanismi. Quegli individui – che siano docenti, ragazzi o genitori – possono fare la differenza, ma pur sempre nella vita di altri individui, non in quella del sistema. E questo è brutto da sentir dire, mi rendo conto (e ci sto dentro fino al collo), ma se non ne prendiamo atto non ci teniamo nemmeno l’ultimo baluardo della libertà: la consapevolezza di quel che facciamo.
Ora, in un contesto così rassicurante e così deresponsabilizzante, arriva il virus e mette tutto a soqquadro. Perlomeno lui (o lei?) ci ha provato, ora bisognerà vedere se gli umani (quelli che si sono definiti Sapiens sapiens, evidenziando quella che per Stefano Mancuso è la peculiarità della specie umana, ovvero la presunzione) sapranno cogliere la provocazione.
Ci sentiamo ancora “rassicurati” pensando alla scuola adesso?
Gli iGen: chi sono e di cosa hanno bisogno?
Ecco che, da un po’ di tempo, a scuola e anche all’università sono arrivati gli iGen. Il ritratto che ne fa Jean Twenge spiazza. Siamo di fronte alla generazione che per prima nella storia umana non ha visto il mondo senza internet. E senza smartphone. Noi dovremmo prendere coscienza, prima di ogni altra possibile considerazione, che non sappiamo proprio cosa voglia dire nascere come loro e non sapere com’era il mondo senza web a portata, letteralmente, di mano. Abbiamo visto comparire questo oggetto, ci siamo presi una cotta tardiva (e quelle sono pericolosissime, si sa), ci siamo buttati su Facebook con l’ingenuità dei preadolescenti a una festa in discoteca per soli maggiorenni e abbiamo fatto un sacco di pasticci.
Gli iGen no, loro il mondo lo vedono da questa finestra di pochi centimetri dall’inizio della loro vita. Se incocciano al museo una macchina da scrivere, il concetto lo capiscono ma ti chiedono dove sta lo schermo. Ed è già tanto perché se devono scrivere un testo su word al pc si annoiano sulla tastiera, preferiscono chiedere a Google o Siri di cercare quella cosa là e poi ti mandano il link. Sono diversi, senza che questo significhi meglio o peggio (togliamoci questo vezzo di giudicare i giovani).
Ecco, loro sono la generazione del bisogno di sicurezza e di rassicurazione costante, quella che guida di meno le auto, beve meno delle precedenti, chi lo avrebbe mai detto. Gli iGen fanno persino – udite udite – meno sesso, ma molto meno. Calano le mamme adolescenti, le infezioni veneree. Calano gli omicidi nella fascia di età pre e adolescenziale. Non sembra un quadro così malaccio.
Però sono anche quelli della fragilità interiore: si impennano i disagi mentali, l’ansia, gli attacchi di panico, la depressione. E i suicidi. Mai tanti adolescenti e preadolescenti si sono suicidati. Questo sì che è malaccio. A quel punto meglio il sesso…
L’autrice non ha dubbi perché i grafici segnino con evidenza picchi mai riscontrati prima nelle curve: tutti questi allarmanti sintomi di sofferenza esistenziale sono correlati con la nascita e la diffusione (pandemica) degli smartphone e con la loro pervasività nella giornata di bambini e ragazzi. Non possiamo pensare che sia la causa di tutti i mali; la società che li ha accolti era già parecchio sbagliata di suo, ma l’onnipresenza del telefono connesso ai social, alla messaggistica e ai videogame ha fatto sì che – dati alla mano – gli iGen, pur avendo meno compiti scolastici e più tempo da destinare ad altro, si dedichino molto meno ad attività corporee (in calo gli sport) e ad attività sociali faccia a faccia, dalle uscite libere con amici o fidanzato alle feste. Le loro interazioni umane si riducono a quelle on line, sia per quanto riguarda le amicizie che le relazioni sentimentali (anche queste in netto calo). Queste dimensioni sono vissute come faticose, inutilmente faticose (perché uscire se possiamo chattare tutto il tempo?), oltre che rischiose (vedi il sesso per le malattie o il coinvolgimento amoroso per l’integrità del cristallo interiore).
La casa diventa l’habitat primario degli iGen, si rafforzano le relazioni con i genitori, mentre tutte le altre sbiadiscono. Potremmo glossare anche con altri aspetti del ritratto: leggono molto meno e solo testi brevi, studiano perché obbligati e perché serve un domani ad avere una posizione, ma senza farsi illusioni sul futuro, per questo sono disponibili anche a sacrificarsi, a lavorare sodo ma senza particolari aspirazioni e senza slanci passionali.
Insomma, se con la generazione X era stato coniato il termine adultescenza, ovvero l’adolescenza protratta ad libitum, per gli iGen è l’infanzia il periodo che si prolunga, con tutti gli schemi di comportamento tipici, come la ricerca di protezione e rassicurazioni. Un’infanzia più aperta alle istanze egualitarie e all’accettazione tollerante delle differenze, in particolare quelle di genere, ma soprattutto disillusa, amareggiata, sconfortata.
Per gli adulti di domani, il soffitto e le pareti di una scuola non bastano più
Questi sono statisticamente i bambini e i ragazzi che incontriamo e di certo dobbiamo tenere conto di come “funzionano” per chiederci se quello che stiamo loro offrendo li aiuta o rischia di disperarli ancora di più. Se da un lato sono il frutto di quel mondo incerto in cui la manipolazione mediatica sulla sicurezza ha infarcito la quotidianità almeno dal 2001 e dalla crisi economica del 2008, dall’altro sono loro gli umani che ben presto governeranno la politica, le aziende, la vita pubblica e sociale. E lo faranno con le loro lenti interpretative.
Chiediamoci allora cosa stiamo predisponendo per loro che hanno una profonda lacuna nelle interazioni sociali dal vivo e che rischiano di entrare nel mondo del lavoro o già universitario con un’intelligenza sociale mancante di pezzi essenziali per la costruzione di relazioni significative. E con la percezione che non siano necessarie o siano troppo rischiose.
Il soffitto di un’aula scolastica potrebbe non bastare più per crescere a chi nasce con il naso dentro uno smartphone. La voce di un docente che declama dalla sua cattedra potrebbe essere poco più della voce di un assistente digitale che detta compiti da eseguire. Un libro pieno di nozioni potrebbe non essere mai aperto. Per di più, oggi, bisogna fare i conti con l’impossibilità di toccarsi e interagire guardandosi in faccia, perché la mascherina lo impedisce, atrofizza le possibilità di apprendere le basilari capacità di interazione che si coagulano nel volto e nel contatto. La distanza fisica è, che sia necessaria o meno, una deprivazione primaria che aggrava ansia e depressione e può alterare molto la salute mentale in chiunque, figuriamoci in chi già non è robusto. Il confinamento casalingo con didattica su dispositivi va a mettere un carico da 90 sulle tendenze già pienamente in atto di chiusura nel nido protettivo (non che i compiti non lo facessero…), mettendo tablet e smartphone – ovvero tra i principali responsabili di questa pandemia parallela – al centro dell’esistenza di bambini e ragazzi già conformati ad essi.
È questo che vogliamo dare agli iGen? È di questo che hanno bisogno per crescere e andare incontro alla vita? In che modo l’educazione e, in particolar modo, la scuola potrebbe fare da contraltare alle tendenze più allarmanti?
Una nuova scuola per gli iGen: sappiamo chi sono e di cosa hanno bisogno, come fare a darglielo?
La scuola non può più essere quel luogo rassicurante alla maniera pre-Covid, ammesso che quella scuola ci piacesse, e questo lo ha deciso il virus.
Ma non solo. Non può esserlo perché gli iGen stanno silenziosamente chiedendo altro: che li si veda nella loro fragilità e nel loro bisogno – disperato fino far traballare pericolosamente la loro salute mentale – di relazioni che li strappino alla finzione virtuale e che diano valore all’affettività e al corpo. Questo non può significare neanche lontanamente tornare alla scuola di prima, sia perché gli iGen hanno ricevuto un colpo durissimo dal lockdown, che ha aggravato moltissimo le situazioni già vulnerabili, sia perché il modello di scuola precedente era già dannoso.
Per “salvare” gli iGen da questo sprofondare nella solitudine telematica servono passaggi vitali, come quello dalla chiusura all’apertura dei luoghi, dall’incorporeo al corporeo/materico/manuale, dall’assenza affettiva del mondo adulto alle relazioni stabili e autentiche.
Se ci riflettiamo bene, gli iGen hanno portato a compimento, in modo drastico e facilitati dai dispositivi, il percorso educativo occidentale che già era fondato sulla chiusura dentro spazi immobilizzanti e seriali (le scuole, l’aula) invece che svolgersi, dispiegarsi dentro la realtà quotidiana dell’esistenza, in particolare quella naturale. Era fondato sulla dematerializzazione ben prima dell’era del virtuale, perché gli apprendimenti erano già diventati sempre più intellettuali, astratti, mentalistici e sempre meno fondati sul contatto immediato con le cose, con le esperienze, là dove la vita si compie e quindi si può apprendere in presa diretta.
Quel modello era (è) fondato sulla professionalizzazione della cura, una delle peggiori distorsioni relazionali partorite dall’Occidente: purtroppo però non si può amare il proprio lavoro di cura e gli altri umani in virtù della paga che si riceve a fine mese; la relazione, l’affetto sono dimensioni intrinsecamente gratuite, anche quando lo stipendio si riceve (ed è giusto che si riceva, è ovvio). Nella società del consumo, però, aver calcato la mano così pesantemente sulla professionalizzazione della cura, ha spogliato la cura della sua dimensione di autenticità e di gratuità, riducendo l’insegnamento a erogazione in cambio di denaro. Si può essere docenti senza provare un briciolo di affetto e attenzione alle esistenze dei propri alunni: è il sistema a non prevedere questa dimensione. In una società evitante e fondata sulla performance e il raggiungimento dell’obiettivo, non solo diventa irrilevante la domanda sulla bontà dell’obiettivo, ma viene teorizzato che il coinvolgimento affettivo potrebbe essere eccedente, ostacolante, finanche danneggiante. Salvo poi far rientrare dalla finestra, in una forma ben pettinata, l’empatia e le emozioni, come se dentro chi educa ci fosse un pulsante che mette le emozioni automaticamente in modalità on quando lo dice la neuroscienziata di turno.
Se questi aspetti, già molto critici prima del virus e senza gli iGen, vengono ribaltati, si apre uno scenario completamente diverso.
Relazioni affettive autentiche e stabili come antidoto all’insicurezza generazionale
Con relazioni affettive autentiche e stabili, il bisogno di sicurezza viene soddisfatto in ogni umano (di ogni generazione, aggiungo) e permette di crescere, lasciando cadere via la dipendenza da rassicurazioni permanenti. Gli iGen ci stanno sussurrando questo mentre se ne stanno chiusi sui videogiochi nelle loro camerette.
Ci stanno dicendo che hanno bisogno di toccare le cose, di farle con le mani, come non si è mai fatto nella scuola, perché se è vero che non riescono a staccarsi dal telefono nemmeno di notte, è quel baratro di assenza a farli volare giù dai palazzi per morire. Esistenze prive di corporeità e del contatto fisico delle mani con le persone e le cose sono esistenze che non accedono al senso di tangibilità del mondo, che resta nell’irrealtà. Che si entri in uno stato di tristezza così profonda da sconfinare nella depressione e nel suicidio è del tutto comprensibile.
L’antidoto è il corpo, sono le attività che vedono il corpo in movimento, in azione, tutto intero, con le mani “organo della mente” attrici privilegiate. Tutto questo non era nella scuola di prima del Covid-19; va, però, restituito agli iGen, per una questione di vita o di morte, è il caso di dirlo, o va inventato se necessario. A meno che non consideriamo il disagio mentale e il suicidio come un “danno collaterale” nella guerra sociale a cui ci stiamo abituando.
E le mani, il corpo che hanno bisogno di muoversi, di agire, di riprendersi lo spazio da cui erano stati esclusi in virtù di una sorta di anoressia educativa, ci dicono, insieme al virus, che il cielo è il miglior tetto per imparare e per crescere, non il soffitto magari pericolante di una scuola, con le inferriate alle finestre e il divieto di andare in bagno senza permesso. La sicurezza sanitaria e l’allarme lanciato dagli iGen chiedono di aprire questi luoghi, di sfondare i recinti fisici e mentali dell’educazione e di chi la fa, di mettere in gioco l’intera persona, il di fuori e il di dentro, di lasciar dilagare le esistenze ovunque, perché la vita è ovunque, l’educazione è ovunque.
L’educazione fatta di chiusure, astrazioni e vuoto di gesti vuole finire, necessita di finire, merita di finire. Noi, la generazione adulta, abbiamo il coraggio di liberarcene?
a cura di Gabriella Falcicchio
Gabriella Falcicchio è ricercatrice e docente presso il Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione dell’Università di Bari. È referente regionale del Movimento Nonviolento e formatrice su nonviolenza e conflitti. Redattrice di Azione nonviolenta e membro della comunità di ricerca di Educazione Aperta, collabora con svariate riviste a tema pedagogico. I suoi filoni di ricerca sono legati alla tradizione del pensiero nonviolento, la nascita rispettata e l’educazione nei primi anni di vita, il rapporto con i viventi, le culture della terra e gli stili di vita ecologici. Con edizioni la meridiana ha pubblicato “Profeti scomodi, cattivi maestri. Imparare a educare con e per la nonviolenza” (2018).
Se ti interessa l’educazione emotiva e relazionale dei bambini e dei ragazzi, sfoglia alcune pagine di:
• “Crescere emotivamente competenti” di Davide Antognazza
• “Costruire l’intelligenza emotiva” di Linda Lantieri
Immagine: di Sharosh Rajasekher su Unsplash.