La cultura del miele afghano | Dal diario di Herat di Gholam Najafi
Oggi è il 31 dicembre 2022, sono di ritorno in Italia e non so ancora come domani inizierà il nuovo anno, non ho ancora il nuovo calendario su cui scrivere tutti i miei appuntamenti letterari, tutti i miei nuovi viaggi per conoscere altri luoghi. Ho finito qui in Afghanistan il vecchio anno del calendario occidentale perché del vecchio anno ci sono altri due mesi e venti giorni da vivere.
Mi ronzano nella mente i ricordi vissuti durante questo mio ultimo viaggio, come le voci delle Api udite durante le stagioni dei miei viaggi precedenti, spesi in questa terra dove difficilmente si può prevedere il suo domani.
Ecco i canti delle Api: in primavera, in estate e in autunno volare in diversi luoghi e poi dormire tutto l’inverno senza voler conoscere il freddo. Queste Api che lottano tutti i giorni di tre stagioni ne hanno una sola per riposare l’anima, esattamente come me, quando ero bambino: stavo in casa solo per pochi mesi accanto alla dolce madre e al padre. Certo, loro possono ripararsi anche sotto i petali dei fiori, ma costruiscono lo stesso un nido che chiamano casa per i loro piccoli ancora da nascere; la vita stessa è buona, tutte le piante gentilmente fioriscono, ma bisogna fare sacrifici per ulteriori miglioramenti, di giorno e di notte. Non è buona per le continue lotte che si sentono intorno ai nidi, il vento che sbatte sulle altissime piante e fa cadere frutti e foglie senza lasciare tempo per la maturazione.
Anche sulle mie strade è successo sempre che mi bloccano il tornare a casa e allora esco camminando tra tanti nemici come succede anche alle Api che volano come fossero in mezzo a droni artificiali, ma sono altri insetti, per portare a casa l’Antera dei calici del fiore. Per tutta la strada si vede un gran caos.
Oggi, nel nuovo anno, sfogliavo questi appunti dal diario del mio ultimo viaggio in Afghanistan, li tocco ora come fossero sorsi di miele da assaggiare. Giorni fa alcuni dei miei lettori, e in particolare un carissimo amico siciliano di Siracusa, mi hanno spinto a scrivere un pezzo dei miei ricordi solamente sulle Api e sul miele afghano.
Non vorrei consumare la mia penna su pensieri senza dolcezza, anzi anche a me sembra sia un tema affascinante volare insieme ai miei lettori sulle ali di questi fantastici insetti. Studiare la vita delle Api (che ho fatto qui, insieme ai contadini, contadini che erano tutti analfabeti ma grandi conoscitori di questi insetti) è stato come lo studio della scienza politica.
Ora le Api sinceramente dormono per prepararsi alla primavera del 2023, a riorganizzare il nuovo anno con la calda stagione piovosa; è anche un giorno in cui, a causa della siccità, vediamo molto poco la crescita di questo antico tesoro.
I contadini della regione di Ghazni mi raccontano che raccoglievano il miele oltre dieci volte all’anno. Una volta c’erano fiumi d’acqua, vastissimi campi di fiori e le altissime montagne coperte di fiori fino in cima, dove le api andavano a cantare volando sui petali, si riposavano girando di fiore in fiore; le montagne ora sono state abbandonate e sono rimaste nude di quei rami profumati. Le api seguivano i corsi d’acqua uscendo dai loro nidi e lasciando orfani i loro piccoli, la sera tornavano a casa con il petto pieno di racconti per: “aver volato sui cimiteri e sulle teste delle bellissime donne dove esse cantavano i loro legami”.
Poi passavano ad altre piante che crescevano sulle montagne impregnate dalle piogge, correvano la mattina e tornavano la sera portando tutta la dolcezza del ritorno nei grembi. C’erano le regine a governarle, a farle accomodare ognuna nel proprio favo dove c’è un complesso di celle. Sono tra gli animali più organizzati che ci siano, sono pacifici, muoiono per difendersi.
Così uscivano ogni mattina andando in cerca del nettare dei fiori, i fiori più saporiti ovviamente, che nascevano sul petto delle montagne, uno in particolare, il fiore di Ganda Bagal (l’abbraccio del marcio). Lo mangiavo pure io quando ero piccolo, quando facevo il nomade; nascevano intorno alla mia casa spontaneamente, erano fiori a forma di farfalla, le foglie servivano per lavare i bambini fino a una certa età, oppure si utilizzavano per lavare i piatti al ruscello, insomma il portatore del grasso, così questa pianta probabilmente lavorava anche nella pancia degli Api.
Ho avuto chiare notizie e dolce miele sulla lingua da un contadino a Rezishk. Il 26 dicembre 2022, ero ritornato nella campagna di Herat a casa di un apicultore che mi ha raccontato il futuro delle sue Api. Si sa che i fiori di coriandolo, trifoglio risupinato e i fiori del narciso fioriscono in molte zone dopo la rinascita delle Api, nel frattempo esse vanno lo stesso in giro a pescare altre piante che fioriscono con anticipo, vanno la mattina e tornano portando fra le zampe i sottili ombelichi dei fiori da piantare nella loro cella. Una parte serve così per la riproduzione e una parte per la pancia della regina. I contadini non le toccano in questa fase delicatissima di risistemazione che le porta a trasformarsi da larva ad ape.
Certo anche le api conoscono la vita e la morte perciò, finché non sono costrette, non pungono, vogliono essere pacifiche e, se provano, perdono il destino della loro breve vita che è di circa due anni.
Se fra i piccoli ci sono delle nuove regine, esse vivono per cinque anni, ma ne nascerà una nuova guerra poiché esse combattono fino alla vittoria e faranno fuori la più debole, la giovane regina o l’anziana, che ha meno forza. Dunque la povera regina senza regno, perdendo la battaglia, fugge con i suoi fedeli, e si allontana salendo tra i rami degli alberi. Qui interviene il contadino, attentissimo a capire e a darle una protezione, e le costruisce una nuova casa dove non debba sentirsi straniera ma come i suoi simili.
Anche questo pezzo ha risvegliato dolcissimi giorni della mia infanzia, quando io pure camminavo come un’ape sulle montagne afghane, salivo in primavera quando i fiori dovevano ancora nascere e scendevo quando le api ormai erano sparite. Noi pastori conoscevamo dove avevano messo il loro miele spontaneamente: all’interno di tre tipi di piante che noi chiamavamo la parte maschile della pianta. Erano piante molto leggere, dentro sembravano riempite di cotone, qui le api andavano a dormire, posavano il loro miele e poi si mettevano in letargo.
Non sempre potevano dormire a causa della leggerezza della pianta che veniva scossa dal vento oppure di noi che trovavamo la loro casa e mangiavamo quel miele, come pura medicina. Certo, ci avevano pensato le api a mangiare così tanti fiori e mescolare il nettare nella loro pancia come una vera fabbrica della medicina. Comunque, in ogni primavera, speravamo che le Api ci raggiungessero di nuovo nella nostra terra, invece pian piano non arrivavano più o, se arrivano, morivano, non trovando più i fiori ricercati. Ecco così le api si consumano il cuore per noi e noi cerchiamo la loro casa per rovinarle.
Altre volte invece, in molti luoghi, i contadini, nonostante siano analfabeti, mi narrano l’utilità del miele con grande sapienza tanto che io stesso rimango sbalordito, senza poter trovare termini più giusti.
E poi ho abbandonato la mia terra natale per mettere piede in Italia; anche se l’anima non voleva tornare a casa, tornavo a camminare sulle rive di Venezia. Mi ero troppo abituato ai begli effetti riscoperti su quegli antichi sentieri fra Ghazni e Herat.
Proprio in quella mattina erano scese le nuvole in città e la nebbia negli occhi, fino a Islam Qalah.
Questo tema del ritorno mi viene molto spesso in bocca e negli orecchi, come in un incontro online con circa 250 studenti di Macerata, della scuola Matteo Ricci. Quel giorno mi collegavo da Montreux, poiché ero in partenza per Parigi dopo aver fatto un viaggio lunghissimo, da Murano a Monaco, Hamburgo, Amesterdam, Turchia, Iran. Qui c’era tanto chiasso, caos, confusione: tanti volevano partire e io parlavo loro negli orecchi suggerendo di non uscire cosi giovani dalla propria casa perché non c’è altra terra come la propria, un paese cosi misterioso che perfino le tartarughe hanno trovato un paradiso presso l’isola di Gheshm dove si sentono al sicuro per deporre le uova.
E l’Afghanistan poi di nuovo Iran, Qatar, Svizzera, dove ho visitato le case dei profughi, ascoltato la loro voce. Nel confronto con i nuovi arrivati, io mi sentivo liberissimo di girare il mondo mentre loro cantavano la loro tristezza in una gabbia, come fossero vecchie e rabbiose pernici che non potevano uscire liberamente oltre il confine per cinque anni. Peccato sentirsi tristi in un paese come la Svizzera. Io, in un continente, osservo le donne e in un altro continente gli immigrati. Che cose misere noi uomini sappiamo fare contro i nostri simili!
Da lì ho proseguito per la Francia con il TGV per ammirare meglio i paesaggi dei due paesi; anche lì mi recavo per la terza volta. Conosco il francese, ma mangiavo nei ristoranti iraniani dove avvenivano conversazioni politiche e ribelli. So che già a febbraio del ‘79 partiva da Parigi un volo speciale per Teheran; ora si riorganizzano silenziosamente, riguardano la perdita del potere di quegli anni e fanno nascere una nuova era aiutati dall’Occidente. Prima volevano fare un paese religioso e ora laico?
Infine tornavo a Venezia, distrutto e bruciato, come la nuvola del tramonto, dai bei ricordi che avevo vissuto con ogni persona, in ogni luogo. Lasciavo piangente, per come eravamo vissuti, per come ci eravamo divertiti in ogni singola ora, tutta la gente che avevo incontrato; ho lasciato i cuori vuoti come fossero diventati le grotte intorno ai bei Castelli di Sion.
Il cuore ha goduto di bontà e bellezza e imparato dalle fatiche e dai dolori.
Gholam Najafi
Gholam Najafi è nato in Afghanistan. Ha trascorso l’infanzia lavorando come pastore e contadino. Dopo la morte del padre, all’età di dieci anni, è fuggito dal suo paese d’origine verso il Pakistan, l’Iran, la Turchia, la Grecia e infine l’Europa. Dal 2006 risiede in Italia, a Venezia, con la sua famiglia adottiva. Si è laureato in soli due anni in Lingua, cultura e società dell’Asia e dell’Africa mediterranea e si è specializzato in Lingua, economie e istituzioni dell’Asia e dell’Africa mediterranea all’Università Ca’ Foscari. Attualmente collabora con il progetto “HERA” nel contesto della migrazione, presso l’Università di Padova e si dedica a scrivere racconti e poesie sulla situazione afghana.
Nei suoi libri racconta la sua storia e la sua vita tra due culture e due famiglie. Scopri i libri di Gholam Najafi e sfoglia la sua ultima pubblicazione, Il sorriso di Melograno.
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Foto: Gholam Najafi