Matrimonio nella campagna di Herat | Dal diario di Herat di Gholam Najafi
Ho raccontato a tanti, ma non avevo mai preso così seriamente a cuore, il tema del carcere che questa notte in sogno mi ha fatto rivivere un pezzo del mio passato.
Mi trovavo in un carcere iraniano, quello descritto nel mio primo libro, Il mio Afghanistan (edizioni la meridiana, 2016). C’erano tantissime persone e io dormivo fra due uomini, ma non avevo tanto spazio a disposizione, chiedevo agli altri se mi potevano lasciare un po’ di posto per riposarmi; mi hanno detto tutti no, allora mi sono alzato e sono andato a chiedere al capo del carcere se potevo avere un quaderno e una penna per non farmi mancare l’occasione di scrivere i miei ricordi. Mi rispose di no.
Mi è sempre stato caro scrivere un diario, anche se in quegli anni io ero analfabeta, ma ora, nel sogno, ebbi la possibilità di scrivere trovando per caso in tasca un mio vecchio quaderno con una penna. Ricordo che questi pensieri venivano raccolti sotto la coperta, al buio, pezzi importanti su cui un giorno sarei potuto tornare per approfondire, come faccio oggi con queste mie fotografie.
Il giorno dopo, al mio risveglio, sono stato invitato a un matrimonio nella estrema periferia di Herat, quasi in campagna, dove non avevo mai messo piede fino al 20 novembre 2022. Era la stagione del cavolfiore, 10 centesimi afghani al chilo. Ammiravo, durante il viaggio, questa terra fertile anche nel suo momento più difficile, i suoi campi arati, fino a quando sono giunto alla casa della sposa, dove ho potuto seguire alcuni balli delle giovani donne intorno alla sposa.
Prima del pranzo sono andato a casa di alcuni contadini per poter ascoltare i loro racconti e chiedere notizie sui costi e sulle procedure per la produzione del latte, dello yogurt, del dug, del formaggio, del burro, della carne, della legna, e su quanti metri deve essere il pozzo per l’acqua; della loro vita insomma. A soli sei metri di profondità sembra si arrivi al mare. Per quante stagioni ricrescono le erbe del trifoglio che una volta noi raccoglievamo nei villaggi di Ghazni? Là erano due, qui per dieci volte viene moltiplicata la produzione.
Mi offrivano il tè con le loro storie, mi aprivano la strada per ascoltarli; un evento mirabile, perché i nostri piatti prendono proprio dalle loro mani il loro buon gusto. Pensa, pensa: se non ci fossero i contadini e gli artigiani saremmo nutriti tutti dalle macchine.
Voltandomi indietro verso la terra arata oltre la loro casa, da dove passava la mia strada di ritorno, tornavo a festeggiare la sposa. Là non c’erano tante stanze, perciò molti invitati erano in attesa fuori; si lavavano le mani come una volta intorno al pozzo, poi entravano a mangiare la carne fresca della pecora. Io rimasi a lungo a guardare la stalla delle mucche e i pollai delle galline e a fotografare. Lungo i margini dei prati c’erano le arnie delle api che volavano di qua e di là a dirmi qualcosa di fastidioso, forse per la fine della stagione. Oh cielo, che evento mirabile! Come ricominciava il fluire dei miei ricordi!
Ero l’unico a fotografare e apprezzare questi cambiamenti mentre il padre della sposa tornava a casa tristemente, come noi altri, forse ancora di più perché avrebbe trovato la casa vuota e avrebbe pensato alla gioia dei suoceri della sposa dopo tanta lotta. Ah, l’Afghanistan… Ora ha preso piede questo proverbio che gira sulla bocca di ognuno: “O tomba o divertimento”. Durante le battaglie tutti lottano, ma ora si divertono solo i sopravvissuti.
Tutti avevano ballato e mangiato, uomini, donne e fanciulli si sono sparpagliati in mezzo alle distese di campagna per vedere il tramonto, uno andava di nuovo a bere il tè e un altro correva al ruscello, che qui chiamano mare, ma il mare non c’è. Correvano fra le terre preparate per la stagione primaverile e poi rimaneva la fuga di ognuno verso casa.
Era sera: tutti tornavano chiedendosi perché la festa fosse finita. La verità è che tra due settimane questi miei giorni in Afghanistan saranno il passato, perché scriverò direttamente dall’Iran. Se molti anni fa ci vivevo da clandestino, questa volta vengo da poeta che cerca i suoi vecchi dolori a Teheran, nel profondo del cuore.
Non dobbiamo perdere le ore a piangere, è questa la vita ed è questa la strada che si divide: molti di noi afghani siamo in cammino verso l’Esilio. Se la fuga voi la chiamate fortuna, io spero che tutti abbiano una via di fuga per vedere altre terre.
20 novembre 2022
Gholam Najafi
Gholam Najafi è nato in Afghanistan. Ha trascorso l’infanzia lavorando come pastore e contadino. Dopo la morte del padre, all’età di dieci anni, è fuggito dal suo paese d’origine verso il Pakistan, l’Iran, la Turchia, la Grecia e infine l’Europa. Dal 2006 risiede in Italia, a Venezia, con la sua famiglia adottiva. Si è laureato in soli due anni in Lingua, cultura e società dell’Asia e dell’Africa mediterranea e si è specializzato in Lingua, economie e istituzioni dell’Asia e dell’Africa mediterranea all’Università Ca’ Foscari. Attualmente collabora con il progetto “HERA” nel contesto della migrazione, presso l’Università di Padova e si dedica a scrivere racconti e poesie sulla situazione afghana.
Nei suoi libri racconta la sua storia e la sua vita tra due culture e due famiglie. Scopri i libri di Gholam Najafi e sfoglia la sua ultima pubblicazione, Il sorriso di Melograno.
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Foto: Gholam Najafi